Era il 1990 quando la legge n.142 disciplinava per la prima volta le unioni di comuni come processo associativo e propedeutico alla fusione. Le unioni, infatti, implicano l’aggregazione di alcune funzioni di spesa, mentre la fusione le raggruppa tutte, oltre a prevedere un unico organo di governo politico. Le fusioni comportano quindi un cambiamento molto più radicale rispetto alle unioni e hanno fatto molta fatica a prendere piede nel nostro paese. Dal 1991 al 2013 se ne registrano solo 11 relative a 28 comuni (dati Istat). Dal 2014 in poi il processo è in deciso aumento, grazie alla legge Delrio: fino al 2017 si sono registrate 71 fusioni che coinvolgono 280 comuni. Si tratta comunque ancora di un numero molto piccolo rispetto al totale di comuni italiani. Le unioni sono invece molto più diffuse, e nel 2016 coinvolgevano più di 3.100 comuni (Ancitel). Nel corso del tempo, soprattutto a seguito della congiuntura economico-finanziaria negativa che ha comportato la necessità di una razionalizzazione del sistema degli enti locali, si sono susseguiti diversi interventi normativi (leggi 265/1999 e 42/ 2009, decreto legge 78/ 2010, leggi 135/2012 e 56/2014) che hanno modificato a cadenza periodica lo strumento, mantenendo comunque inalterato l’obiettivo di riduzione della spesa. A quasi 28 anni dalla sua istituzione vale quindi la pena chiedersi se l’unione di comuni porta effettivamente risparmi di spesa.
Per rispondere alla domanda ricorriamo ai risultati emersi da un recente lavoro, in cui abbiamo analizzato l’effetto “unione” sui comportamenti di spesa dei singoli comuni della regione Emilia Romagna per il periodo 2001-2011. La scelta di focalizzare l’analisi su una sola regione è sostanzialmente guidata da tre motivi. In primo luogo, le leggi regionali possono promuovere e incentivare le unioni in modo completamente diverso, facendo sì che la comparazione tra le regioni porti a conclusioni errate. Ad esempio, alcune regioni – come Veneto, Toscana ed Emilia Romagna – hanno previsto forti incentivi finanziari legati alla durata o alla ampiezza delle unioni. L’Emilia Romagna rende poi disponibili informazioni dettagliate sulle unioni, ricavabili sul sito della regione. Infine, il processo associativo comunale è molto marcato in Emilia Romagna, tanto da essere, tra le regioni a statuto ordinario, quella con il più alto numero di unioni.
Nel periodo 2001-2011 i comuni dell’Emilia Romagna che stipulano convenzioni di unioni crescono notevolmente. Nel 2001, infatti, c’era solamente un’unione che interessava 9 comuni (2,5 per cento dei comuni); nel 2011, invece, se ne registrano 31 che coinvolgono 160 comuni (circa il 50 per cento dei comuni). Il “salto” maggiore si registra tra il 2007 e il 2009, quando i comuni che si mettono in unione raddoppiano – grazie soprattutto allo stimolo della legge regionale n. 10 del 2008 – passando così da 54 (nel 2007) a 132 (nel 2009). Nel periodo 2001-2011 la spesa corrente totale pro-capite dei comuni non in unione è sempre maggiore della spesa corrente totale pro-capite di quelli in unione e la differenza è più marcata a partire dal 2008, quando cioè il numero di comuni in unione raddoppia.
Per verificare se l’appartenenza a un’unione abbia generato un significativo risparmio di spesa, abbiamo definito il gruppo di comuni in unione come “trattati” e il gruppo di comuni che non fa parte di unioni come “controllo”. Quindi confrontiamo la variazione di spesa corrente pro-capite (che contiene l’ammontare dei fondi trasferiti dal comune all’unione per l’erogazione della specifica funzione o del servizio) del gruppo dei trattati prima e dopo l’entrata in unione con la variazione di spesa pro-capite per il gruppo di controllo nello stesso periodo di tempo. Chiaramente, la stima è tanto più affidabile quanto più il gruppo dei comuni di controllo è simile al gruppo dei trattati. Per questo motivo, individuiamo tra i comuni del gruppo di controllo quelli che hanno caratteristiche simili (come popolazione, struttura demografica, reddito, livello di indebitamento) a quelle del gruppo dei trattati e ripetiamo l’analisi utilizzando questo gruppo ristretto di comuni. Dimostriamo anche che la scelta di entrare in unione non è guidata dal livello pregresso di spesa. I comuni infatti decidono di appartenere a un’unione indipendentemente dall’entità della propria spesa: un risultato che rende i comuni del gruppo dei trattati ancora più simili a quelli del gruppo di controllo.
Infine, redistribuiamo ai singoli comuni sulla base della popolazione i trasferimenti ricevuti dall’unione: in questo modo ci assicuriamo che l’effetto sulla spesa non sia guidato dall’ammontare di trasferimenti ricevuti. I risultati indicano che essere membro dell’unione fa diminuire le spese del 4 per cento, che significa un risparmio di oltre 50 milioni di euro; per i comuni interessati corrisponde in aggregato al 69 per cento dell’addizionale comunale Irpef. Inoltre, l’effetto non è uniforme nel tempo, ma aumenta fino all’ottavo anno dall’entrata in unione. L’impatto sul risparmio non è quindi immediato, ma dipende dal tempo necessario a realizzare i dovuti cambi organizzativi e strutturali. Non sembra esserci poi nessuna relazione tra il risparmio conseguito e la grandezza dell’unione in termini di comuni aderenti. Infine, il risparmio di spesa non sembra essere associato a una diminuzione della qualità del servizio pubblico, né a una minore attrattività del comune. L’unione di comuni – e quindi a maggior ragione una loro fusione – porta dunque significativi risparmi di spesa, che potrebbero essere utilizzati per diminuire la pressione fiscale locale o per reagire ai tagli di trasferimenti dal centro.
Massimiliano Ferraresi, Giuseppe Migali e Leonzio Rizzo