Rileggendo quanto recentemente ho pubblicato riguardo all’iscrizione epigrafica indicata nella surriportata intestazione, avverto la necessità di fornire al lettore qualche chiarimento utile a comprendere perché mi sono avvalso di alcune traduzioni in italiano che potrebbero sembrare inesatte.
È anzitutto da evidenziare che la lingua usata dal committente e dal lapicida è quella latina, senza alcun dubbio lingua di Roma, la quale ha origini indoeuropee. Il percorso evolutivo della stessa è stato il seguente: gruppi linguistici ovvero i Protolatini emigrando si assestarono nell’Italia preistorica abitata da Siculi, Enotri, Opici, Ausoni, Falisci, ecc. Nelle vicinanze di Roma erano in uso dialetti affini al latino, ma sicuramente molto diversi. In prosieguo di tempo il latino si diffuse in tutta l’Italia con la tecnica della colonizzazione la quale consisteva nella presenza di gruppi di coloni inviati, da Roma, per fini economico-sociali e per fini militari nei territori conquistati. Ciò avveniva perché le nazionalità non latine, attraverso un processo di assimilazione apprendessero il latino e lo facessero proprio con una maggiore o minore prontezza ed intensità. La lingua di Roma si diffuse in tutta l’Europa meridionale esercitando il proprio influsso su tutte le lingue d’Europa e del mondo. Nella storia di questa lingua si verificarono le seguenti fasi: latino preletterario (fino al principio del III sec. a.C.), latino arcaico (da Livio Andronico all’inizio del I sec. a. C.), latino classico (età di Cesare e di Cicerone), latino augusteo (usato dai poeti augustei e, in prosa, da Tito Livio), latino postclassico o imperiale (nei primi due secoli dell’impero), latino cristiano (particolare forma di latino imperiale usato dagli scrittori cristiani, dalla fine del II sec. d. C. in poi; usato, ad es., da Appiano, Tertulliano, Sant’Agostino), tardolatino o basso latino (in parte parallelo al latino cristiano).
La Chiesa salvò il latino letterario, lo cristianizzò rendendolo lingua liturgica di tutto l’Occidente e per tutto il Medioevo fu la principale e quasi unica depositaria della cultura, sicché il latino medioevale o mediolatino fu, sia pure imbarbarito, la lingua colta e internazionale dell’Europa occidentale. Alcuni brevi esempi di parole medievali, nel campo della religione, sono: aedificare, conversio = “conversione”, feriae = giorno feriale, ducissa = duchessa, sophista = scienziato, focaria = cuoca, infirmus = malato, rusticus = indotto, excommunicare (usato dal cardinale Pietro Bembo in sostituzione di aqua et igni interdicere). (Come si può notare, questi termini, ed altri ancora, invoglierebbero a fornire una diversa traduzione. Pertanto, per amor di esattezza, occorre vagliare molto e superare qualsiasi difficoltà).
L’Umanesimo sembrò essere una nuova primavera del latino, fu invece un suo luminoso autunno (v. Alfonso Traina e Giorgio Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, Pàtron editore, Bologna, 1983, pp. 5-13 e vedi anche Giacomo Devoto, Storia della lingua di Roma, vol. I e II, Cappelli editore, Bologna, 1983).
L’uso della lingua di Roma, pertanto, impone la conoscenza di tutto il percorso evolutivo seguito da questo antico idioma, perché talora, se non spesso, la traduzione in italiano di qualche parola non sempre corrisponde al vero significato in cui è usata o espressa.
“S. Nicandri”, che figura scritto nel documento di morte, del notaio Giuseppe Ruscitto, riportato nel precedente mio scritto, l’ho tradotto “in San Nicandro” perché “S[ancti] Nicandri” non è un generico genitivo, ma un “caso locativo” che, nella fattispecie, esprime lo stato in luogo, ottemperando a quanto stabilito dalla grammatica latina. Casi locativi, ad es., sono i seguenti: Romae = a Roma, Corinthi = a Corinto, domi = a casa.
Ritornando a esaminare “publica cura”, si può affermare che secondo il latino classico e tenendo conto dei vari significati, in italiano, indicati dal vocabolario latino, nella fattispecie che qui ci interessa, va tradotta “pubblica amministrazione”. I due termini, a prima vista, sembrano espressi nel caso nominativo, invece sono in una forma di ablativo assoluto che richiede una particolare e talmente esatta traduzione da far chiaramente intendere come il Consiglio Comunale (organo principale della pubblica amministrazione) in particolari casi, provveda, tramite apposita delibera, ad affidare e a conferire un “pubblico incarico” a persona idonea a realizzare ciò che si intende perseguire. Tutto ciò fa capire perché “publica cura” è stato tradotto così: “in seguito a pubblico incarico”.
Una utile ed eccellente guida, allorché si intenda svolgere una attenta e scrupolosa ricerca storica, può rivelarsi una lunga frase tratta dal Libro XLIII cap. 13 dell’”Ab Urbe còndita” di Tito Livio. È la seguente: “Ceterum et mihi vetustas res scribenti, nescio quo pacto, antiquus fit animus et quaedam religio tenet, quae illi prudentissimi viri publice suscipienda censuerint, ea pro indignis habere, quae in meos annales referam” (Eppure anche a me, mentre espongo per iscritto avvenimenti del passato, non so come, l’animo si fa antico e un certo scrupolo (mi) trattiene dal reputare non degni di essere riportati nei miei annali eventi che uomini famosi, dotati di molta saggezza, hanno (invece) ritenuto doveroso rendere oggetto di pubblica considerazione). Il termine “religio” è una “vox media”. Essa si riconosce dal fatto che assume significati contrastanti (es. “religione”, “scrupolo”) e richiede una certa attenzione nel volgerla in italiano.
Una saggia e rapida lettura, dell’epigrafe di cui ci si è occupati, dà subito la certezza che la ministoria in essa eternata è più che mai degna di ogni considerazione e di essere narrata e tramandata anche perché non si limita a trasmettere ai posteri soltanto quanto è dato leggere nelle sue poche righe, ma esorta sommessamente a interessarsi anche degli avvenimenti accaduti nello stesso contesto storico in essa trattato.
Solo così il passato rivive nel presente e il presente si fa futuro, sotto forma per tempi indefiniti, nei quali di generazione in generazione si inoltreranno gli interessati alle patrie cose.
Un’epigrafe, questa, che ancorché immersa nel vorticoso fluire del tempo è ed è stata capace di fermarne un solo attimo per renderlo utile e necessario per la narrazione di un evento storico; poi abbandonandosi e riconsegnandosi al perpetuo moto del tempo stesso, ha fatto sì che, libera nella infinità del tempo e dello spazio, duri per sempre. È tutto questo che, per i posteri, hanno inteso e voluto fare la “pubblica amministrazione” del passato, il notaio Giuseppe Ruscitto e il lapicida.
A questo punto, per concludere, si può tranquillamente sostenere che un evento storico è sempre immerso nella triade temporale composta dal passato, dal presente e dal futuro. Infatti servendoci di un più chiaro ed autorevole concetto, già espresso da Sant’Agostino (nel Libro XI, 20, 26 delle sue Confessioni) e tuttora riportato in un mio scritto ancora inedito, si può dire che “i tempi sono tre: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste tre forme sono presenti nell’animo, perché il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro è l’attesa. Questa formulazione è talmente esatta da far riconoscere che i tre tempi, sì, sono tre davvero”.
Beniamino GABRIELE
© (Riproduzione vietata: per questo e per il precedente mio scritto relativo alla “Pietra Scritta”).