Dopo forti discussioni e proteste, nel 2015 è stata approvata la riforma de “la Buona scuola”. Al governo va certamente riconosciuto il merito di aver aumentato la spesa pubblica in istruzione invertendo la politica dei tagli seguita dai precedenti esecutivi. Non meno importante è il merito di aver riaffermato la centralità della scuola per lo sviluppo del paese e la necessità di innalzare i livelli di istruzione e le competenze degli studenti allo scopo anche di contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali. L’aumento della spesa si è tradotto per lo più in nuove assunzioni (87mila precari assunti e circa altre 64mila assunzioni in arrivo con il nuovo concorso), ma ha anche permesso la concessione di incentivi monetari agli insegnanti e il finanziamento di una card annuale di 500 euro per i loro consumi culturali, l’avvio di investimenti nell’edilizia scolastica, l’alternanza scuola lavoro. I punti cruciali della riforma però andranno veramente a regime solo quest’anno e molti sono i nodi da sciogliere. Un aspetto importante della riforma era costituito dalla chiamata diretta dei docenti da parte dei dirigenti scolastici. Dopo una lunga trattativa, pochi giorni fa i sindacati e i tecnici del ministero hanno siglato il contratto sulla mobilità (la Gilda degli insegnanti non l’ha firmato). Se la Buona scuola prevedeva il trasferimento su ambito territoriale per tutti, il contratto stabilisce una soluzione più graduale: i vecchi assunti (almeno per il 2016/2017) potranno continuare a scegliere (se intendono spostarsi all’interno della stessa provincia) la scuola di destinazione, mentre i nuovi assunti (fasi A e C) potranno indicare un ambito territoriale (a livello sub-provinciale) e ottenere il posto grazie alla chiamata diretta del preside. In questo modo, non solo si è accresciuta la disparità di trattamento tra insegnanti che svolgono lo stesso lavoro (perché i docenti a chiamata diretta ricevono incarichi triennali, seppur rinnovabili), ma si è anche limitata la possibilità di scelta da parte dei presidi. Questa facoltà incontra poi un altro limite che deriva dai profili professionali disponibili. Il problema si è presentato per l’organico di potenziamento: in teoria dovrebbe servire per attuare i progetti formativi delle scuole, ma in pratica non è così poiché i professori disponibili spesso non sono quelli di cui le scuole avrebbero bisogno. Il disallineamento tra domanda e offerta spiega forse i ritardi da parte del ministero a fornire i necessari chiarimenti sull’utilizzo dell’organico potenziato (nel frattempo questi insegnanti vengono utilizzati prioritariamente nella sostituzione dei colleghi assenti).
A seguito della riforma, le istituzioni scolastiche si sono trovate a gestire una serie di nuovi compiti. Tra questi la compilazione del piano triennale dell’offerta formativa con la definizione delle attività di potenziamento, le iniziative per l’orientamento, la predisposizione del rapporto di autovalutazione, la nomina del comitato di valutazione dei docenti. Si tratta di compiti gravosi che in alcuni casi hanno presentato intoppi non irrilevanti (in alcuni scuole i collegi dei docenti non hanno nominato i due insegnanti che erano chiamati a esprimere) e che hanno richiesto l’impiego di molte risorse. L’aggravio deriva anche dal fatto che le linee guida del governo sono state solo di indirizzo generale. Ad esempio, il comitato di valutazione dei docenti dovrà procedere alla definizione dei criteri per valutare e valorizzare gli insegnanti più meritevoli e a causa della genericità degli indirizzi sarà chiamato a prendere decisioni estremamente complesse, come stabilire se valutare esclusivamente l’apprendimento degli allievi oppure anche il contributo del docente al miglioramento del funzionamento dell’istituzione scolastica. Fatto ciò, dovrà decidere come valutare l’apprendimento degli studenti, questione assai difficile: quali risultati si devono considerare (i voti ottenuti, i risultati ai test Invalsi, il comportamento in classe)? Conta il risultato medio oppure conta anche la capacità di coinvolgere gli studenti più deboli a rischio di abbandono o quella di valorizzare le eccellenze? A che arco temporale si dovrà fare riferimento? Lasciando troppa discrezionalità, il governo non ha solo perso l’occasione di indicare le priorità e di rendere il processo più trasparente, ma ha anche aggravato il compito assegnato alle scuole. Inoltre, come evidenziato in alcuni interventi su lavoce.info, non è chiaro quale sarà l’effetto prodotto da questo grande sforzo. Ciò perché finora non è stata fatta chiarezza circa le conseguenze derivanti da un risultato buono o cattivo della scuola, né sono state definite in maniera chiara le responsabilità dei dirigenti scolastici. Le istituzioni scolastiche incontrano numerose difficoltà anche su un altro fronte. La legge 107/2015 aveva stanziato 100 milioni di euro all’anno a partire dal 2016 per i percorsi di alternanza scuola-lavoro. L’idea era quella di creare una maggiore connessione tra istruzione e occupazione, ma in molti casi è difficile darvi avvio non tanto per la mancanza di volontà da parte delle aziende ad accogliere gli studenti (anche questa da verificare e non incentivata dal costo di 150 euro per l’iscrizione al registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro – non ancora attivato), quanto per la mancanza di aziende (soprattutto al Sud). Sono molte quindi le questioni da risolvere e ed è ancora troppo presto per presentare un bilancio, c’è però il rischio che ci si trovi intrappolati in un processo estremamente complesso e che le procedure sottraggano risorse all’obiettivo ultimo di innalzare la qualità dell’apprendimento degli studenti.