SUPERARE LA BUONA SCUOLA: SI’, MA COME?

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Il capitolo sulla scuola del contratto di governo fra M5s e Lega ruota intorno a una sola idea: superare la Buona scuola, la riforma voluta dal governo Renzi. Il testo, però, poco dice su come ciò dovrebbe avvenire. Forse, con gli onerosi impegni assunti in altri campi, Matteo Salvini e Luigi Di Maio non sanno quante risorse ci saranno per l’istruzione.

Nata innanzitutto per eliminare il precariato, la Buona scuola ha fallito: quest’anno i docenti con incarichi annuali sono stati circa 130 mila, molti di più del periodo pre-riforma. Come prevedibile, gli assunti dalle graduatorie a esaurimento (Gae, un sottoinsieme del vasto mondo del precariato scolastico, oltre 300 mila persone) non hanno risposto ai bisogni reali delle scuole, alle quali – specie nelle secondarie – servivano docenti di materie scientifiche, mentre sono arrivati abilitati in diritto, materie umanistiche, musica.

Anche la questione territoriale non ha trovato soluzione: l’assegnazione degli insegnanti del Sud alle cattedre del Nord ha suscitato reazioni negative in chi doveva trasferirsi (si è parlato perfino di “deportazione”) e così molti sono stati lasciati vicino a casa, dove però non ci sono posti disponibili. Insieme ai maggiori poteri dei dirigenti scolastici e al premio economico ai singoli docenti, tutto ciò ha tolto al Pd il sostegno di un suo blocco storico di voti.

Ma quanto della Buona scuola il nuovo governo può davvero cambiare? Di certo, non cancellerà le assunzioni dalle Gae e quelle previste dal concorso 2016 (in tutto, circa 150 mila insegnanti), con un aumento della spesa pubblica di 3 miliardi l’anno. Anzi, è probabile che continui la pressione per ridurre il precariato, con nuove assunzioni. Un esempio, citato nel contratto, sono le diplomate magistrali precedenti il 2002, prima inserite nelle Gae e in alcuni casi (poco più di 6.500) assunte, poi estromesse da una sentenza del Consiglio di Stato perché non laureate, come richiesto dalla legge. L’esecutivo gialloverde finirà con l’individuare l’ennesima soluzione ad hoc per il passaggio in ruolo, dimostrando una volta di più come la stratificazione di normative spesso incoerenti renda le assunzioni un campo minato per qualunque ministro.

Sulle procedure di reclutamento, due sono gli interventi prevedibili in base al contratto. Il primo è l’abolizione della cosiddetta “chiamata diretta”, in base alla quale i presidi possono scegliere (non assumere, come qualcuno pensa) da un dato ambito territoriale i docenti che più servono alla propria scuola. Era una delle poche buone idee della riforma del governo Renzi, ma è già stata assai depotenziata dal recente contratto di lavoro.

Il secondo intervento evocato dal testo M5s-Lega è il rafforzamento dei legami fra docenti e territorio per garantire la continuità didattica, riducendo le sostituzioni in corso d’anno e nel ciclo scolastico. Fin dove ci si può spingere? Mentre il divieto di assumere da altre regioni sarebbe incostituzionale, si può pensare a una “ferma” obbligatoria: chi accetta un posto in una scuola non può trasferirsi per un certo numero di anni. Chiedere il riavvicinamento subito dopo aver ottenuto un posto di ruolo lontano da casa è oggi una prassi molto diffusa e tollerata. Più in generale, i trasferimenti chiesti e ottenuti dai docenti sono in aumento: prima della Buona scuola, ogni anno cambiava scuola il 25 per cento degli insegnanti, dopo la riforma si è passati al 29 per cento. Una tendenza da limitare, sapendo però che per la continuità didattica occorre operare soprattutto sulla mobilità interna alla provincia (o all’ambito).

Fra gli spunti condivisibili del contratto di governo ci sono l’attenzione all’edilizia scolastica e alla formazione continua dei docenti (con quali risorse?), come pure l’idea che tutti gli insegnanti, non solo quelli di sostegno, debbano essere formati per l’inclusione. Enfatizzata, ma poco rilevante, è invece l’abolizione delle “classi pollaio” (più di 30 allievi): in realtà, stime recenti parlano di un modesto 0,3 per cento del totale, in un contesto che peraltro vedrà in 10 anni la popolazione scolastica calare di un milione di allievi.

Si può ipotizzare che il principale tentativo di superare la Buona scuola riguarderà l’alternanza scuola-lavoro. La riforma ha portato a 400 le ore obbligatorie nei tecnici e professionali (200 nei licei). A tre anni dall’inizio, l’applicazione è stata a macchia di leopardo: solo nel 36 per cento dei casi ha portato a reali percorsi in azienda e nell’8 per cento in un’organizzazione no-profit, mentre nel 12 per cento si è svolta nella scuola stessa (spesso come “impresa simulata”). Intendiamoci: l’alternanza non è una forma di apprendistato alla tedesca o di orientamento per il lavoro, ma può servire, se consente agli studenti di acquisire nuove competenze di natura sociale. D’altro canto, i docenti lamentano che sottrae ore preziose all’insegnamento. Il M5s vorrebbe abolirla; la Lega si mostra invece più sensibile alle esigenze del mondo produttivo.
Nel contratto gialloverde vi è un grande assente: il rinnovamento della didattica. Per un paese che, a partire dalla scuola media, rimane stabilmente nel gruppo di coda dell’Ocse per quel che riguarda gli apprendimenti degli studenti, non è un’omissione da poco.

Andrea Gavosto