SAN NICANDRO: “I CHIACCHJ’RA C’ LI PORTA U’ VENT’”

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Continua una nuova serie di articoli che parlano sui modi di dire e degli aforismi locali per capire e analizzare la quo ed offrire una visione chiara, lucida e trasparente della condizione umana in cui ognuno di noi può legittimamente dedurre o trarre da ciascuno di essi le considerazioni che gli sembrano più ovvie in riferimento ai tempi, alle usanze, ai problemi, ai comportamenti e agli altalenanti rivolgimenti che la società sta attualmente vivendo. Gli articoli sono tratti dal libro “Voci di Capitanata” di Donato D’Amico.

Il detto di oggi è: “I chiacchj’ra c’ li porta u vent’””, cioè “Le chiacchiere se li porta il vento”.

Non c’è chi non veda al di là e dietro le chiacchiere la presenza dell’uomo, il quale può essere attivo, efficiente, positivo, ma, al contrario, può anche essere inconcludente, inerte e improduttivo. Questa è, a nostro parere, la tipologia caratteriale e comportamentale dell’uomo cui rinvia il nostro proverbio. Si tratta di un complesso di qualità e attitudini che costituiscono la personalità dell’essere umano. A voler far proprio uno specifico riferimento al motto popolare, possiamo dire che, nella fattispecie, si tratta di un insieme di atteggiamenti psichici connaturali alla natura dell’uomo, tanto da determinarne il carattere, ossia, l’indole o, se volete, il temperamento e, quindi, le inclinazioni, le tendenze e persino l’istinto.

Diciamo che in alcune persone c’è questa tendenza a “chiacchierare”. Ira, secondo il nostro proverbio, si tratta di una propensione negativa nel senso che questa proclività si pone solo come discorso senza nessuna importanza, come passatempo e perditempo. Ovviamente, il riferimento è diretto a quelle persone che cercano di procurarsi prestigio e stima con le ciarle, sfruttando magari la credulità del pubblico. Ma costoro non capiscono che, nel tempo, i loro discorsi vani e frivoli, la futilità dei loro argomenti e i loro pettegolezzi finiscono quasi sempre per screditarli alla pubblica opinione che poi li ravviserà solo ciarlatani.

Ebbene, proprio contro costoro si rivolge il nostro proverbio. Esso, infatti, ci suggerisce esplicitamente che non abbiamo bisogno di chiacchierare; a noi non servono le persone che si perdono in discorsi senza senso, coloro che blaterano senza concludere mai niente, perché la vita richiede uomini attivi, risoluti, solleciti. Dunque, buona volontà, capacità, disponibilità e sacrificio sono i coefficienti che consentono all’uomo di realizzarsi come fautore e fruitore di uno stato di prosperità e benessere. Praticamente, l’uomo vale solo per ciò che riesce effettivamente a realizzare in termini di progresso etico-sociale e culturale, ossia, in termini di effettiva praticità e concretezza.

Già moderatamente teorizzato dai nostri antenati in questo proverbio, il mito dell’uomo efficiente e dinamico o di colui che deve sprizzare idee brillanti a getto continuo è oggi maggiormente sentito perché il tempo urge continuamente, incalza ed eccita l’uomo fino al parossismo. Tuttavia c’è il timore di cadere però nell’eccesso opposto perché l’efficientismo non solo può portare alla spersonalizzazione dell’uomo, ma esso può anche costituire il deprecabile itinerario che conduce direttamente allo “stress”, con tutta la patologia che ne consegue a livello psichico-fisico e ambientale.

Si tratta, dunque, di evitare i due eccessi: da una parte, l’uomo che blatera in continuazione senza concludere alcunché, dall’altra, l’ostentazione efficientistica il cui logorio psico-fisico (affaticamento, tensione nervosa, ecc..) può arrecare incalcolabili danni all’organismo umano: dal semplice mal di testa all’insonnia, dall’impotenza sessuale all’ulcera gastrica, dalla paralisi all’infarto. Ancora una volta ci tocca dare credito ai nostri antenati il cui suggerimento di invita ad essere misuratamente attivi, ossia, ad agire con intelligente moderazione e con tanta responsabilità per non crearci traumi di sorta.