Che cosa dovrebbe fare un governo che volesse ridurre l’evasione fiscale? Gli studi statistici sull’Italia indicano come potenzialmente efficaci le politiche di riduzione della pressione fiscale, di incremento dell’efficacia dell’accertamento e come deleteri i condoni. E le analisi sull’organizzazione dell’amministrazione fiscale italiana indicano l’esistenza di cospicui margini per l’incremento di efficienza. Di tutte queste possibilità, il contratto di governo, nella migliore delle ipotesi, ne esplora solo una. La riduzione dell’evasione fiscale è affidata alla “flat tax”, o meglio all’imposta a due aliquote, i cui effetti regressivi sono già stati documentati. Nel contratto si dice che ne conseguirebbe “maggiore base imponibile tassabile, grazie anche al recupero dell’elusione, dell’evasione e del fenomeno del mancato pagamento delle imposte”. Affermazione in sé vera, ma in quali proporzioni? Se il gettito dell’Irpef si riduce di 50 miliardi, allora la base imponibile che dovrebbe emergere (immaginando un’aliquota effettiva del 15,5 per cento) per compensare interamente la perdita è di circa 322 miliardi, ovvero il 38 per cento in più di quella oggi dichiarata (circa 843 miliardi). Già la metà di questa cifra sarebbe comunque un incremento ben poco credibile.
Sugli accertamenti bisogna fare alcune premesse. Secondo l’ordinamento italiano, la regola è che spetta all’amministrazione provare che il contribuente ha evaso. Tuttavia, la “prova provata” dell’evasione è difficile da reperire. Per questo, in tutte le legislazioni fiscali dei paesi avanzati, è prevista la possibilità di utilizzare delle presunzioni che, normalmente, non invertono l’onere della prova ma che, in taluni casi, lo fanno. Da noi questa inversione dell’onere della prova avviene, ad esempio, con gli accertamenti bancari –in cui la portata della presunzione è stata peraltro limitata dagli interventi della Corte costituzionale e del legislatore- e con il redditometro. Il contratto prevede “l’abolizione dell’inversione dell’onere della prova, da porre sempre a carico dell’amministrazione finanziaria” nonché “l’esclusione del ricorso a strumenti presuntivi di determinazione del reddito nei casi di piena e comprovata regolarità fiscale del contribuente” e “la riduzione dei tempi di accertamento nei casi di attiva e costante collaborazione del contribuente nell’assolvimento degli adempimenti contabili e di versamento”. Ad un’interpretazione letterale, sembrerebbe un intervento abbastanza limitato posto che i casi di vera e propria inversione della prova (ovvero in cui l’amministrazione finanziaria si avvale di una presunzione legale relativa) sono, come si è visto, di carattere eccezionale. Anche la previsione dell’esclusione di strumenti presuntivi e di riduzione dei tempi di accertamento per i contribuenti “virtuosi” non sembra discostarsi molto dai regimi premiali già introdotti (per esempio, dall’art. 9-bis, comma 11 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, relativo agli ISA). Tutto sommato, quindi, le conseguenze sull’efficacia dell’attuale azione di accertamento sarebbero ben limitate. Se, invece, si volesse intendere che l’abolizione delle presunzioni si estende anche ad altri casi fino a prevedere un ostacolo generalizzato al loro utilizzo allora l’efficacia dell’azione di accertamento risulterebbe sensibilmente diminuita.
Ma, soprattutto, nel “contratto” ci sono pochi e generici riferimenti alla riorganizzazione dell’amministrazione fiscale finalizzata al miglior uso dei dati, se si esclude la frase secondo cui va “creato (sic!) un fisco digitale in linea con i più innovativi strumenti di elaborazione e comunicazione dati” che non vuol dire nulla e non affronta i nodi fondamentali (privacy e organizzazione della filiera dei dati). E, a dimostrazione della scarsa sensibilità al tema, si chiede l’abolizione dello spesometro che, se correttamente gestito e utilizzato, potrebbe essere la base per una nuova azione di prevenzione dell’evasione nelle transazioni business-to-business.
Ultimo, ma non meno importante, nel contratto si prevede l’instaurazione della “pace fiscale” con i contribuenti, favorendo “l’estinzione del debito mediante un saldo e stralcio dell’importo dovuto, in tutte quelle situazioni eccezionali e involontarie di dimostrata difficoltà economica”. Una pace fiscale che, però, andrebbe attuata escludendo “ogni finalità condonistica”. Delle due, l’una: o si sta parlando di un vero e proprio condono, come sembrerebbero indicare i termini “saldo e stralcio” e il riferimento a generiche “difficoltà economiche” (nonché alcune dichiarazioni giornalistiche), oppure si intende un provvedimento limitato ad alcuni soggetti, come sembrerebbero indicare gli aggettivi “eccezionali e involontarie” e, appunto, l’esclusione della finalità condonistica. Di nuovo, nel primo caso gli effetti sull’evasione sarebbero deleteri, (e a poco varrebbe dire, per l’ennesima volta, che si tratta dell’ultimo condono a cui seguirà poi una svolta nei rapporti tra fisco e contribuente) nel secondo caso nulli. Tralasciando le affermazioni prive di reale significato relative all’introduzione del “carcere vero” per i soliti “grandi evasori” – dove si ignora la storia patria sull’efficacia delle sanzioni penali e il fatto che, per definizione, i grandi contribuenti che possono essere grandi evasori in Italia sono ben pochi – e l’immancabile riferimento al conflitto d’interesse – che non funziona bene neppure dove è già stato introdotto e comunque è incoerente con l’abolizione di alcune detrazioni fiscali per spese documentate previste con la flat tax – il quadro non è certo confortante.