IL GIORNO DI SANT’ANTONIO ABATE SI AMMAZZAVA IL MAIALE E COMINCIAVA IL CARNEVALE

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In alcuni paesi dell’Italia, il 17 gennaio, era usanza accendere un falò e ammazzare il maiale per onorare S. Antonio Abate. La manifestazione era molto gradita per il folklore ma soprattutto per la frenesia e l’entusiasmo che permettevano di rendere l’avvenimento oltre che gioioso, anche momento di socializzazione e momento di diffusione di un istintivo sentimento fraterno.

Intorno al fuoco si mangiavano granoturco e fave abbrustoliti. Si sgranocchiavano anche i ceci preparati secondo un vero e proprio rituale. Infatti prima di essere cotti nella sabbia calda, erano fatti marinare con bucce di arance, foglie di alloro e sale, e poi scottati per circa due minuti in acqua bollente, avvolti in uno straccio, mentre si recitavano due Padre Nostro in latino.

Non mancavano canti tradizionali, a volte provocatori, ma solo allo scopo di divertirsi e di far divertire i partecipanti. Per la buona riuscita degli scherzi e per non essere riconosciuti, invece, ci si mascherava. Iniziava così il carnevale.

I contadini in quel periodo ammazzavano il maiale, mettendone a disposizione una parte che veniva arrostita sulla brace del falò.

In verità del maiale non andava sprecato assolutamente nulla. Ed infatti: – una volta ucciso, si strappavano i peli del dorso per farne dei pennelli. L’animale bagnato con acqua bollente e rasato completamente con dei coltelli affilati (peli residui e unghie delle zampe venivano bruciati con la paglia), era poi appeso, squarciato a metà. La testa tagliata era posta sul tavolo con un’arancia tra i denti. Le budella venivano pulite e fatte asciugare. Una parte riempita di carne tritata si trasformava in salsiccia. Un’altra parte, invece, veniva riempita di sangue misto di aromi, di cacao, di zucchero, di pezzettini di grasso prima di essere bollite nell’acqua.
Il brodo ottenuto, distribuito agli amici e parenti, serviva per preparare una specie di polenta dolce.
Il fegato, i polmoni e il cuore si cucinavano con aglio, olio, sale e con qualche foglia di alloro. L’involucro che conteneva questi organi serviva per avvolgere involtini ripieni. Le cotenne, le orecchie, le zampe, la lingua e il muso ricoperti di sale erano conservati in luogo fresco in contenitori di argilla. -Le cosce, ricoperte di sale e pressate per un certo periodo con enormi sassi si asciugavano appese in luogo fresco e buio per trasformarsi in prosciutti stagionati. Il lardo compreso di cotenna veniva salato ed appeso. Il lardo misto alla carne si arrotolava speziato di sale, peperoncino e rosmarino per ottenere la pancetta arrotolata.

Tra magre verità, credenze popolari e magiche leggende, l’ingenuità faceva bene a tanta gente, lievito per far crescere l’onestà, così sostenevano i contadini che davanti ai camini raccontavano le favole ai più piccini.

Il globo terrestre nel compiere il movimento di rotazione intorno al sole (equinozio invernale), riceve meno luce e calore, cosicché i giorni diventano più corti e l’aria più gelida, la natura cessa di vegetare e allo stesso modo animali e uomini rallentano il proprio ciclo di vita.

Gli antichi popoli, ogni 31 gennaio, accendevano enormi fuochi alimentati fino al giorno delle Ceneri e sacrificavano maiali o cinghiali alla dea Terra per tenere caldo il suo cuore e poter conservare i semi utili ai raccolti. La brace dei fuochi veniva portata nelle case per riscaldare e purificarle, mentre le ceneri venivano sparse nei campi in auspicio di un buon raccolto. Si consumava la carne dei suini fino al giorno precedente alle Ceneri e in modo particolare nei tre giorni antecedenti unendo il detto: “vale mangiare carne”. Da qui si coniò la ricorrenza del “Carnevale”. Dopo in onore alla dea Cerere, per 40 giorni, ci si purificava l’anima con digiuni e si pregava affinché gli armenti proliferassero e i raccolti riempissero i magazzini.

Una leggenda legata al nome di S. Antonio Abate, (da non confondere con S. Antonio di Padova), sposterebbe la data dell’accensione dei fuochi dal 31 gennaio al 17, giorno della morte del santo. Nato nel centro dell’Egitto da nobile famiglia e dopo alcuni anni di matrimonio. I genitori fecero un lungo viaggio per recarsi in pellegrinaggio a Vinicio di Compostela per guarire dalla sterilità. Il viaggio fu lungo e stancante, il marito imprecava contro la consorte la quale persa la pazienza lo mandò al diavolo, approfittò subito il demonio che apparve alla donna così dicendo: “lui non lo voglio di sicuro, mi attiverò per far vedere il fuoco al nascituro, lo chiamerai Antonio e per un intero inverno lo terrò al caldo nell’Inferno”. La donna acconsentì e dopo nove mesi partorì. Il Santo rimasto orfano non ancora ventenne, si privò di tutti i suoi averi, distribuendone parte a chi si fosse preso cura della sorella e parte ai poverelli. Si allontanò, poi, da tutti rifugiandosi presso una tomba abbandonata.

La leggenda narra che S. Antonio Abate un giorno salvò un porcellino da bestie feroci; da quel momento il porcellino lo seguì dappertutto come fosse un cane e per meglio individuarlo gli mise al collo una campanella. In una giornata freddissima d’inverno aiutò il Santo ad entrare nell’Inferno conoscendo bene il luogo prelevò con un bastone a forma di “T” il fuoco per riscaldare la terra. Il diavolo si vendicò. Uccise il maialino lanciando un coltello. E nascose sotto il letto del Santo un carbone ardente a provocargli dolori atroci alla pelle. Da qui il nome “fuoco di S. Antonio”.

  1. Antonio Abate nonostante i sacrifici, le mortificazioni e le malattie visse per 105 anni e morì il 17 gennaio del 356 d.C. Famoso in Oriente e in tutta Europa fu proclamato patrono degli animali domestici, dei salumieri, dei pittori, dei macellai, dei fornai e dei cavalieri. Il giorno della ricorrenza della Sua morte, i contadini radunavano gli animali domestici per la benedizione dopo averli fatti girare intorno alla chiesa; dopo si svolgeva il mercato, si barattava per vendere il bestiame. Davanti alla chiesa e dopo la raccolta di legna di porta in porta, seguendo il criterio della questua, si accendeva il falò. Il falò rappresentava simbolicamente l’elemento che distrugge il male per far rinascere il bene.

FILASTROCCA:
Il porcellino di S. Antonio ingannò il demonio con al collo la campanella aggirò la sentinella, nell’inferno s’intrufolò tutto il giorno lì restò. Tra i diavoli vi fu scompiglio non trovando il nascondiglio, chiesero al Santo la cortesia affinchè lo portasse via e Lui col bastone li rubò il tizzone. Il diavolo arrabbiato contro i due ha scagliato il coltello al porcellino al Santo il carboncino e per colpa del demonio ebbe il fuoco Sant’Antonio. Il porcello non fu sepolto ma squartato in ogni parte per mantenere a tante lune fecero la carne a salume, rasati i pelli col coltello per creare i pennelli, con il sangue la dolciata e con il lardo la pomata. La gente di ogni luogo faceva cerchio intorno al fuoco danzava mascherata per non essere individuata, beveva vini saporiti, faceva legumi abbrustoliti, carne arrosto con il sale fino a tutto Carnevale. Così passava l’inverno con il diavolo giù all’Inferno. Evviva, evviva Sant’Antonio che ha gabbato il demonio.

Antonio Monte