L’alternanza scuola-lavoro rappresenta la più grande novità della riforma della Buona scuola, che nel bene e nel male è stato uno dei punti più significativi del governo Renzi. La legge obbliga gli studenti delle scuole superiori a svolgere attività formativa in azienda come parte del percorso che porta al diploma. Riguarda sia gli studenti degli istituti tecnici (400 ore) che del liceo (200 ore). In totale, sono poco più di cinque settimane, ma molte scuole fanno svolgere alcune ore di formazione propedeutica all’alternanza in aula, per cui, alla fine, i ragazzi passano in azienda solo qualche settimana. Eppure, a molti sembra troppo.
In questi giorni, in diverse regioni, molti studenti sono scesi in piazza contro l’alternanza. Le accuse sono gravi: li si obbligherebbe a svolgere lavoro gratis in sostituzione dei dipendenti, impedendo loro di studiare, l’unica cosa davvero importante. Vale la pena ricordare che fin dall’inizio l’alternanza è stata accolta molto male dai docenti: l’hanno vista come un impoverimento del loro ruolo.
Differenze tra alternanza e apprendistato. L’alternanza rappresenta un’innovazione del nostro sistema d’istruzione, che resta sequenziale: istruzione prima, competenze lavorative dopo. L’istruzione è solo una delle tre componenti del capitale umano. Le altre due sono le competenze lavorative generali e quelle specifiche a un certo posto di lavoro. Mentre l’istruzione si può e si deve formare nelle aule scolastiche, le competenze lavorative si formano in azienda, attraverso l’esperienza. La differenza fra competenze generiche e specifiche è decisiva per capire l’alternanza, tipica della tradizione scandinava, e distinguerla dall’apprendistato scolastico, tipico della tradizione tedesca. Le competenze generali si apprendono, almeno in parte, anche attraverso brevi periodi in azienda e si possono usare in qualunque lavoro: per esempio, capacità di interagire con la clientela, di lavorare in team, di comprendere la divisione sociale e gerarchica del lavoro di qualunque organizzazione complessa. Naturalmente, queste competenze continuano a svilupparsi nel corso del tempo, ma l’alternanza si propone di iniziarle. Le competenze specifiche richiedono invece esperienze di lavoro pluriennali nello stesso posto di lavoro e non si esportano: scrivere una citazione, un bilancio, organizzare il magazzino di una farmacia, ma anche svolgere alcuni lavori manuali complessi, come meccanico ed elettricista.
L’alternanza introduce germi di principio duale, ma non è ancora l’apprendistato scolastico alla tedesca. Quest’ultimo prevede che l’intero percorso scolastico si svolga per metà in azienda (retribuito con 60 per cento dello stipendio di un adulto), per metà a scuola. Le materie scolastiche sono collegate al lavoro in azienda. Nell’alternanza scandinava, invece, gli studenti non sono pagati e il contenuto formativo è minore.
L’alternanza in teoria può formare competenze generali legate al lavoro che, per loro natura, non si possono ottenere in aula. Da questo punto di vista, conta poco in quale impresa viene fatta l’esperienza, conta di più come viene strutturata. Uno dei motivi per cui le imprese non si impegnano abbastanza nella formazione dei giovani è proprio la brevità del periodo trascorso in azienda con l’alternanza. Mentre l’apprendistato alla tedesca è un investimento per le imprese, che nello stesso tempo traggono vantaggio dalla formazione in aula, nel caso dell’alternanza il vantaggio, almeno nell’immediato, è dello studente, benché si realizzi solo se in azienda ha effettivamente luogo un processo di formazione. Per far sì che sia davvero così, si potrebbero introdurre incentivi rivolti a imprese e studenti per spingere entrambi gli attori a impegnare risorse, anche in termini di tempo, nel processo formativo. Nel breve periodo, la singola impresa potrebbe non vedere un beneficio, poiché il giovane potrebbe andare a lavorare in un’altra impresa, ma a lungo andare l’alternanza genererà vantaggi sicuri per il sistema nel suo complesso, mettendo a disposizione una mano d’opera più competente.
Cosa cambiare? Ci si chiede poi se i liceali non vadano esclusi dall’alternanza. Tuttavia, i diplomati più deboli nel mercato del lavoro non sono tanto quelli con diploma “finito” (tecnici e professionali), ma quelli con diploma liceale che non riescono a laurearsi, proprio per le scarse competenze lavorative possedute. Benché in misura minore rispetto agli altri, gli abbandoni universitari (circa 55 per cento degli iscritti) e i fuoricorso (40 per cento) coinvolgono anche gli ex-liceali. Per costoro, l’alternanza potrebbe dunque rivelarsi utile. Tuttavia, prima di una decisione definitiva, occorrerebbe valutare quanti sono i liceali che non arrivano alla laurea. In alternativa, si potrebbe rendere volontaria – e non obbligatoria – l’alternanza scuola-lavoro per i liceali. L’ultima questione riguarda le difficoltà che le scuole incontrano nel trovare imprese interessate a progetti di alternanza. Per superare il problema servirebbero fondi per formare all’alternanza le imprese e lo stesso personale scolastico. Oggi, infatti, mancano nelle scuole docenti con formazione specifica, che monitorino e controllino l’attuazione delle convenzioni con le imprese e magari svolgano anche attività di collocamento e orientamento post-scolastico.
Francesco Pastore