TORRE MILETO DELLA MIA INFANZIA. SECONDA TAPPA: DA SAN NAZARIO A TORRE MILETO

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Il racconto inviato Matteo Gioiosa all’amico Emanuele Petrucci

Al ritorno eravamo tutti svegli e tutti intenti a guardare a destra e a sinistra della strada che percorrevamo. Strada brecciata, ma con breccia grossa. Ogni tanto durante il cammino sentivamo un “botto”: era dovuto alla corona di ferro o acciaio che stava messa per rifinire la ruota di legno e che prendeva di sbieco un sasso e lo catapultava agli angoli della strada. Mamma Celeste disse a suo figlio (mio padre): «M’chè e s’ cc’ stéva un ca cam’nava allappid nn l’aveva fr’cà li coss?» Mio padre rispose che un bambino rimase colpito da una pietra “scacciata” velocemente da una ruota del carretto ed è stato anche operato alla gamba». Subito mia nonna si sentì “maestra” per dire a noi bambini: «Quann stat dind a la vianova e passa nu carrett m’ttit’v dind a la cunetta». «Mà! – disse alla mamma mio padre – Sti uagliul a dov’a na jì a p’gghjì la vianova k la breccia. A quiss li t’nit semb dint». «Figghj mija jè mmegghj ka lu sap’n, semb bbon jè!» rispose la nonna. E tra na parlata e un’altra arrivammo al primo casello rosso. Papà ci spiegò che questi caselli erano abitati dalle famiglie dei “cantonieri”, personale addetto alla manutenzione di un tratto di strada. L’ultimo cantoniere che io ricordo è l’amico G’ggin cacciafum, buon’anima. Se uno passa oggi per quella strada quelle case sono ancora in piedi e mantengono sempre quel colore rosso, appena sbiadito dopo tanti anni di dismissione (ebbene sì, si può utilizzare quella frase: “Non ci sono più le murature e i colori di una volta”. Altri tempi!!!).

Il sole intanto incominciava a dar fastidio alla testa. La nonna prese un lenzuolo, uno dei tre che dovevano servire per creare l’ombra sulla spiaggia, e disse a noi ragazzi: «Jì e Marietta (mia madre) mant’nim nu pizz p’dun e tu, Mattè e tu Lucì mand’nit l’auti e dduj pizz. La cosa funzionò ed avemmo il fresco e il venticello non era più caldo sotto l’ombra, ma sempre più fresco. «Oh! lu vid ca sim r’cr’jat?» concluse la nonna. Più in là prende la parola mio padre: «Wuagliù stam p’ rr’và a “Lauro” dove c’è un fiume d’acqua sorgiva che va a sboccare nel lago di Lesina. Qua crescono i “lauridd”, ca sson tant fin fatt k la cita». Arrivati a Lauro facemmo sosta e ci fece vedere il fiume, i lauridd e una casa tutta dismessa e quasi diroccata, all’altro lato della “vianova”. «Qui – disse mio padre e indicando il caseggiato – venivano i sannicandresi a macinare il grano. Facevano tutta questa strada. È già da molto tempo che i mulini sono anche in paese». Intanto papà con il secchio che portava sotto il carretto prelevò l’acqua dal fiume per darla da bere al cavallo. Durante la sosta tutti a chiedere a mio padre quanto tempo ci vuole ancora per arrivare a Torre Mileto. Quando rispose che occorreva una buona oretta, tutti a dire “uffa!! E quando finalmente arrivammo a Torre Mileto quell’uffa diventò un’ “Evviva siamo arrivati!!”.

Appena arrivammo al pozzo dove iniziava il territorio di Torremileto (adesso in quel posto si trova l’Hotel e il Ristorante e Bar “La Gardenia”). Incontrammo diverse montagne di sabbia (papà li chiamava “li mo’l’fa”) altissime tanto da non far vedere il mare e nettampoco la spiaggia. Papà si fermò dove attualmente si entra nel parcheggio macchine, ci fece scendere e ci disse di non andare sulla spiaggia prima che attrezzasse la postazione. Tolse da sotto il carretto il cavallo che lo legò ad una macchia molto alta di cui non ricordo il nome, poi mise il carretto con le stanghe in alto e il di dietro a pelo terra. Sulle stanghe legò i tre teli bianchi in modo da fare ombra e da servire anche come luogo riservato per eventuali servizi igienici e per cambiarsi di abiti. Non eravamo solo noi in quella posizione. C’erano più di 15 carri postati alla stessa maniera con i teli di diversi colori. In altri termini alla mia epoca i carri sostituivano gli ombrelloni con teli attorno. Peccato che non vi sia una foto della spiaggia invasa da questi carretti antesignani degli ombrelloni per notare la fantasmagorìa di colori dei teli. Terminata la postazione, papà ci diede la libertà di andare in spiaggia con l’avvertimento che l’acqua non oltrepassasse il ginocchio. Quel giorno vi erano molti marosi, i quali trasportavano un’acqua spumeggiante tanto da renderla bianchissima. A noi piacevano quelle carezze alle gambe e ai piedi che quei marosi ci offrivano. Ad un certo punto sentiamo la voce della mamma che ci voleva vicino a lei perché temeva che le grandi onde ci inghiottissero.

Povera mamma, anche per lei era la prima volta che andava al mare e aveva paura che potesse succederci qualcosa di brutto. Uscimmo dall’acqua e andammo alla postazione. «Ragazzi – disse la mamma – se dovete giocare, giocate qui vicino “o trajìn”». Risposi alla mamma che noi volevamo giocare vicino alla spiaggia per farci accarezzare dai marosi. La mamma acconsentì perché fra poco ci avrebbe chiamato per il pranzo. Infatti, dopo poco tempo ci chiamò perché era pronto da mangiare. Io pensavo che era ancora presto per mangiare, ma mio padre rispose che erano passate le 12 e mezza. Aveva ricavato l’orario attraverso l’ombra proiettata da un ceppo sulla sabbia. Mio padre da ragazzo frequentò le scuole fino alla quarta elementare con successo, poi dovette andare al lavoro perché la mamma era rimasta vedova. Ai suoi tempi chi riusciva a superare la quarta elementare aveva una cultura superiore ai ragazzi della terza media di oggi. Andammo sotto la tendopoli (chiamiamola con i termini di oggi) e trovammo le sedie di legno sulle quali stavamo seduti nel carretto, sistemate una dopo l’altra in modo da formare una tavola omogenea sulla quale spiccava una tovaglia a fiori e su di essa la quantità di piatti di creta (non credo fossero di porcellana) necessari per ciascuno di noi. Sì erano passati già tre anni che la mamma e la nonna disusarono il piatto unico di creta grande in cui tutti andavamo a prelevare il cibo che conteneva.

Ricordo che quel piatto girava ad ogni “mb’zzata” di forchetta e molte volte mi capitava di trovarmi di fronte un pezzo che non volevo e aspettavo un secondo giro. Tutti prendemmo posto mentre la mamma prese il recipiente entro cui erano sistemate le melanzane ripiene con i vari cappelletti in ordine diritto da sembrare tanti bambini in fila come ci ordinavano le nostre maestre. Le patate di un bianco-roseo spezzavano il colore marrone delle melanzane e davano un segnale alla bocca per secernere quel liquido che ci fa pregustare, senza ancora assaggiare, il piatto che avremmo dovuto mangiare. In molte occasioni la mamma preparava le melanzane ripiene con le patate. Ma quelle melanzane mangiate sulla spiaggia di Torre Mileto avevano un sapore particolare, che, ancora oggi, a distanza di tanti anni, sento secernere quell’acquolina che ebbi allora. Tutti ad elogiare la mamma per le melanzane che erano squisite. Adesso, posso dirvi che la mamma ha fatto u rot come sempre; la finezza di quelle melanzane era da attribuire alla scena che avevamo davanti agli occhi: il mare e sulla spiaggia tanti carretti con le stanghe alzate e con i teli variopinti e quel venticello che odorava di mare.

Era quell’atmosfera che noi non avevamo mai provato prima di quel giorno ad insaporire di più quel piatto di melanzane contornato di patate. Mio padre disse: «Se a casa ci fosse questa scena, il mare e l’aria, avess’ma jì p’zzent. P’cchè e cc’ n’ vò d magnà? Adova l’avess’ma jì a p’gghjà tutt’i sol’ta ca cc’ vuless’n?.!!!». Terminato il pranzo io e i cugini andammo sulla spiaggia senza mettere i piedi nell’acqua (era questa la consegna ricevuta dalla mamma perché aveva paura che si bloccasse la digestione). Qui incontrammo altri ragazzi come noi che ci invitarono ad andare alla fontana per prendere acqua da bere. Questi conoscevano molto bene Torre Mileto perché venivano da diversi anni. Non era una fontana, era una piccola sorgente che cacciava fuori acqua freschissima solo un poco “molle” (veniva usato questo termine per dire che l’acqua della sorgente era meno dura di quella delle piogge sedimentate in una cisterna). Facemmo comitiva con questi ragazzi e stemmo insieme a raccontarci. Uno era di Apricena e altri tre di San Nicandro, ma mai visti. Ci portarono sugli scogli tutti spigolosi tanto da costringerci a mettere le scarpe che al primo tonfo di un maroso divennero tutte bagnate fuori e dentro. Mai assaporato una sensazione simile con i piedi in una scarpa piena di acqua.

Ma la sensazione che mi torna in mente fu quella di ammirare un granchio (poi un uomo ci disse che era una pelosa perché nera). Quella pelosa entrava ed usciva da una fessura. Entrata nella fessura, rimase con la testa e gli occhi fuori per scrutare le nostre mosse. Forse, visto che non ci allontanavamo dalla sua postazione di difesa, uscì e velocemente scappò e s’infilò in un’altra fessura. Tutti abbiamo tentato di acchiapparla, ma nessuno è riuscito a fermarla. Prendemmo un ceppo e lo infilammo nella fessura per farla uscire, ma tutti i nostri tentativi fallirono. Uno dei nostri scocciato di stare dietro a quella pelosa, si allontanò sugli scogli per una ventina di metri e ci chiamò per farci vedere quante cozze nere piccolissime vi erano attaccate a uno scoglio. Tutti addosso a quelle cozze. Non avevamo attrezzi adatti per staccarli dagli scogli e pensammo di utilizzare qualche pietra appuntita. Rovinammo tutto. Rompemmo i gusci delle cozze dai quali apparve qualcosa di bianco che se avessimo avuto un coltello avremmo potuto gustare. Uno dei nostri amici acquisiti prese quel bianco lo sciacquò nell’acqua di mare e lo mangiò.

Prima di dividerci ci demmo appuntamento a San Nicandro sulle scale della chiesa dei morti. Ci incontrammo un paio di volte, ma gli interessi erano completamente diversi e piano piano ci distaccammo, anche perché, a quei tempi, noi ragazzi appartenevamo al rione in cui abitavamo. Mio padre ci chiamò perché stava approntando il carro per il ritorno a San Nicandro. Fine seconda tappa del percorso. Si dice che il veleno si dà un poco alla volta per non causare la morte di colui che è costretto a ingoiarlo (qui colui che è costretto a leggere). Alla terza tappa di percorso: il nostro ritorno a casa…E avìta s’ndì k c’è cap’tat??? Alla prossima.

Foto DI Michele Gioiosa padre di Matteo tratta dal Volume 4° de “LE BELLE IMMAGINI DI SAN NICANDRO GARGANICO” di Emanuele Petrucci

Matteo Gioiosa