SE LO SPREAD TORNA SULLE MONTAGNE RUSSE

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Lo spread, termine inglese che indica il differenziale di rendimento tra i titoli emessi da due stati sovrani, non è una invenzione tedesca e non è nato con l’euro. Esiste da quando esiste un mercato per il denaro che gli stati sovrani prendono a prestito per finanziare il loro fabbisogno. È un indicatore importante perché ci informa sulle aspettative degli operatori che comprano e vendono titoli di stato sui mercati. Per uno stato sovrano come la Repubblica Italiana, che ha un debito di 2.300 miliardi e ogni anno chiede al mercato di finanziare nuove emissioni per circa 400 miliardi, è cruciale convincere chi deve prestare i propri risparmi della possibilità di riaverli.

Nella storia dello spread si distinguono tre grandi periodi. Il primo si chiude nel 1999, anno di creazione dell’euro (la valuta nasce ufficialmente nel gennaio 1999, tre anni prima dell’inizio della sua circolazione, nel gennaio 2002). Ciascun paese ha ancora la sua moneta ed è in vigore un sistema di cambi quasi-fissi. In questo periodo lo spread riflette sia il rischio di cambio, sia il rischio di default dell’emittente. Al Sistema monetario europeo (Sme) partecipa anche il Regno Unito e c’è già una moneta “sintetica” europea, l’Ecu. Dal punto di vista della finanza pubblica, è il periodo in cui il nostro paese compie considerevoli sforzi per raggiungere i parametri definiti nel Trattato di Maastricht, firmato nel febbraio 1992. Allo sforzo partecipano sia governi politici, di sinistra e di destra, sia governi a guida tecnica come quelli Ciampi e Dini. Le elezioni del 1992 sono quasi un monito per l’oggi: si vota il 5-6 aprile, ma si deve attendere il 28 giugno per il governo Amato I. La tempesta sullo Sme viene scatenata il 2 giugno: i cittadini danesi si esprimono contro la ratifica del Trattato di Maastricht, un voto con implicazioni pesanti per la tenuta dello Sme. A settembre, infatti, lira e sterlina sono costrette a lasciarlo; la lira viene svalutata e lo spread schizza a 800. Solo una manovra finanziaria pesantissima (“la manovra” da 90 mila miliardi di lire, 6 punti di Pil) convincerà gli investitori sulla capacità dell’Italia di onorare il proprio debito.

Inizia qui il percorso verso la moneta unica e il risanamento dei conti pubblici; ma è una strada accidentata. Lo spread scende repentinamente fino a un valore pari a 100 alla fine del 1994. Sarà poi l’instabilità politica di inizio 1995, accompagnata dal fatto che francesi e tedeschi elaborano un concetto di unione monetaria ristretta, a determinare una sua nuova impennata a 600 punti base. In quel contesto pochi pensano che l’Italia riesca davvero a rispettare i parametri di Maastricht. Solo nel 1997, grazie a uno sforzo fiscale importante, il governo Prodi porta il nostro disavanzo sotto il 3 per cento del Pil e lo spread crolla sotto 100.

La seconda fase è quella in cui l’euro è davvero considerato la moneta unica dei paesi dell’Unione Europea e si chiude nell’ottobre 2009, quando il neoeletto premier greco George Papandreou annuncia che i conti della Repubblica ellenica sono stati truccati.

In questo periodo, lo spread è stabilmente sotto 100 (arrivando a un minimo di 9 punti base a febbraio 2005). Eppure, non mancano le tensioni politiche: per esempio, nel 2003 Germania e Francia (tra gli altri) non rispettano le regole del Patto di stabilità e crescita, che vengono sospese. Ancora più importante è la crisi dei mutui sub-prime esplosa nel 2007. Solo nel 2008, con il suo avvitarsi e il fallimento di Lehman Brothers, lo spread mostra una tendenza rialzista, ma si cambia direzione abbastanza rapidamente dopo un massimo di 170 punti base alla fine di gennaio del 2009. Quando però la Grecia racconta di aver detto bugie sui suoi conti, la riduzione si ferma in attesa di capire come l’Unione gestirà la vicenda.

Il terzo periodo è ancora una fase di forte turbolenza: all’inizio del 2010 appare chiaro che la Grecia non è in grado di ripagare i suoi debiti e gli altri paesi devono decidere se e come aiutarla. L’avvenimento che modifica le aspettative degli operatori è l’incontro di Deauville del 18 ottobre 2010, quando Angela Merkel e Nicolas Sarkozy – con una iniziativa delle sole Germania e Francia – dicono al mondo che un paese dell’area euro può fallire. L’effetto è devastante per gli investitori: il prezzo per i titoli italiani torna a riflettere il rischio di default del singolo paese e per l’Italia, che ha un alto debito e crescita fragile, lo spread schizza sopra quota 500. Il governo Monti ci mette una pezza, ma di fronte all’incapacità di rispondere ai mercati con strumenti fiscali (come lo European Stability Mechanism), lo spread riprende quota di nuovo nella primavera 2012. Solo le famose parole di Mario Draghi pronunciate il 26 luglio 2012 spingono in basso lo spread, convincendo gli investitori che l’euro è una costruzione irreversibile; e quelle parole contano ben più degli acquisti settimanali della Banca centrale europea.

Lo spread cala, ma le istituzioni europee rimangono fragili e devono essere riformate. Lo si è visto con le voci sulle possibili intenzioni del nuovo governo italiano: se pensiamo di fare a meno dell’euro, il prezzo sui nostri titoli (su tutte le scadenze) è quello che incorpora il rischio di default e il rischio di cambio. Bene saperlo prima di prendere decisioni affrettate e fare dichiarazioni improvvide.

Simone Pellegrino e Gilberto Turati