SAN NICANDRO, LA COSTA DI GIUSEPPE CRISTINO

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Mi folgora oggi, quasi in appello, un desiderio un poco insano di vagabondaggio, di nomadismo urbano, un’ansia infantile di andarmene che mi spinge, esule dal tepore della biblioteca di casa mia, a percorrere senza meta, in preda ad una sorta di pulsione esplorative, le vie, le piazzette, i vicoli, i pianori, i declivi divenuti di colpo magici de “La Costa”. Un rione, un quartiere un melograno intraperto.

Mi inoltro – è l’unica lastricata in cemento – per via Solferino, poi Via Vallone, poi Via Monti, Via Collina; lungo il camminamento del muretto a sinistra, di sotto pullulano, a colori variopinti, vigne, orti, giardini, filari di fratte, macere, palizzate tra i quali spuntano fichidindia, nespole, mimose, oleandri. Sulla destra, le case, come risucchiate dal basso, colano a picco in questo bianco oceano di roccia, lasciando galleggiare a mezz’aria balconi, frammenti d’archi, capitelli mutili, orbite di finestre, mentre le strade, inerpicate a gradoni, fluttuano su una convulsione tellurica. Le facciate, i muri fatti a pietre e malta, rimpasto di risulta, si macchiano tutte di calce candida, abbarbicate e in fuga dal tessuto compatto della pietra, protese nel celeste sconfinato del cielo cui la magia della pioggia conferisce, in questo marzo ancora freddo, una straordinaria lucidità. Ai lati delle porte d’ingresso, quelle sulla strada, lungo gli stipiti esterni, si snodano tralci di rampicanti o sarmenti serpeggianti in pensili grate a fugare con l’ombra estiva la calura impietosa. Qualche gatto svincola sospettoso, un cane alla catena ulula, in un recinto si dinoccolano papere scodinzolanti, Per terra, davanti ad ogni abitazione, pianori lindi con cordoli a gradini che si perdono in vicoli e viuzze, stradine strette e impraticabili, larghe una spanna, un labirintico gioco di entrate ed uscite, dedalico anfratto abitativo.

In un angolo a strapiombo sugli orti sottostanti s’affacciano verande ad arco schiacciato, tramutate in alto in mansarde su cui il primo sole s’adagia in un abile gioco di luce.

I terrazzi – dai davanzali orlati di gerani, primule, malverose – si sgretolano in crepe dove occhieggiano ciuffi di menta o campanule. Davanti ad ogni casa la scalinata, il vagghio, porta al primo piano. Sono scalinate a pietre compatte, ma corrose dal muschio. Su ballatoi recintati a muretto o, sui più moderni, a volute di ringhiere in ferro battuto o a mattoni traforati o a sinuose colonnine, tentano la fuga vari tipi vari tipi fiori he, a dispetto dell’incuria o forse anche per essa ridondano di nuova vita e di profumi stagionali. Sotto la scalinata c’è la “mascionella” o qualche arcata in penombra, cieca al colore delle nuvole.

E’ un groviglio di vicoli, stradine, a cespuglio, da perdersi. Molte case sono abbandonate, poche abitate, decorose nella loro modestia. Qualche muro, solo qualcuno, è rivestito di piastrelle esagonali, colorate, di ceramica. Di ceramica ho visto anche i rettangoli della toponomastica stradale, antichi, lo scritto in blu sul fondo chiaro a linea di bordo chiusa. Mi perdo per Via Campagna, Vico Incoronata, Via della Valle, e scorgo i vecchi lampioni a muro, a ghirigori ferrigni, ricami di mani creative. I cornicioni dei tetti sono a coppi, ramati da ragnatele di salsedine, Dagli angoli dei tetti scendono instabili grondaie sventrate dalla ruggine degli anni. In alto fieri comignoli sbuffanti, di pietre, coperti a tegole addossate o col gallo in stagno e la crocetta dei punti cardinali. Qualche antenna Tv, nei tentacoli di alluminio, mi riporta al presente; ma per strada, tra i ciottoli, c’è anche qualche tombino in lastroni di pietra, grossi riquadro a rettangoli, poggiati a perfezione in un incavo del lastricato, ancora con la catenella al centro: sono le “fossette” di una volta.

In largo S. Maria due bellissimi palazzi sfidano il tempo nel chiarore delicato delle facciate, dei portati in pietra con gli stemmi dei casati scolpiti al centro dell’arcata, con finestrelle in pietra rotonde, a sbalzi, per aerazione e luce dei cortili gentilizi. In alto cimase incespugliate e cornicioni a riquadri scolpiti a raffigurar rose e foglie di acanto. Via Cavour, Calata Monti, Via Campagna con una infiorata di vasi al centro; sono in discesa ora io, la visione si slarga sulla distesa dei Pozzi.

Glu uccelli scendono a quote basse e ti fanno cogliere le strida e i gorgheggi di passeri, colombi, cole, i loro dialoghi o diverbi sullo sfondo di uno scampanio che non viene tanto dalla Chiesa Madre quanto da invisibili greggi transumanti nella campagna vicina, a ridosso dell’altro costone del Canalone, smaltato di prati, di anfratti, di verde di pini spennacchiati, di lecci, di mandorli, di fichi, di ippocastani e di tigli. Un rigagnolo mormora dal basso.

Torno sulla piazzetta da cui ho iniziato il percorso, vicino alla fontana dove ho parcheggiato. In un paese dilagato in tutte le direzioni è pure bello il considerare di questi angoli l’immagine della vita raccolta, ordinata, discreta, una fascinosa oasi di pace senza l’inferno del traffico. Un quartiere per chi ama andare a piedi; è l’unico modo per conoscerlo e decifrare lo spettacolo che si rappresenta su sfondi portentosi (il Pantano, le Tremiti, la Mariella, l’infinito). Anche la fisionomia e le maniere della gente che s’incontra per quelle vie hanno un non so che di più semplice e di più umano di quelle degli altri.

Ma c’è una parte della veduta panoramica di questo quartiere che è incomparabile: la distesa dei tetti. Tutti di vecchie tegole color rosa smarrito, coronati qua e là da qualche abbaino. E poi – è questa la cosa più straordinaria – per strada, nella fuga dei gradini, di rado si incontra qualcuno. E di solito sono vecchiette che annaffiano fiori e uomini anziani che armeggiano a qualche riparazione, ma di giovani ho visto solo due ragazze a conversare dai balconi e da lontano mi piaceva di pensare che potessero essere belle.

Ora devo tornare a casa, quanto cammino oggi. Al calar della sera mi prende un preludio di sonno.

Venire qui, venire oggi, in questo rione medioevale è stato per me un piacere, una scoperta, un privilegio, un miracolo e, so per certo, che i miracoli riservati agli uomini si contano sulla punta delle dita.

Giuseppe Cristino