SAN NICANDRO: IL FASCINO DELLA NATURA E DELLA STORIA

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Si ripropone un articolo del 2015 scritto in occasione della Fiera d’Ottobre da parte della testata giornalistica ospite “Fame di Sud” della nostra manifestazione.

Arriviamo a San Nicandro Garganico che è già buio, ma la centralissima piazza IV Novembre – nonostante il tempo incerto – pullula di visitatori che si aggirano curiosi fra gli stand dei produttori di specialità gastronomiche del Gargano o stazionano intenti a degustare dell’ottima carne arrostita al momento. Siamo nel cuore della Fiera dell’Accoglienza che da 172 edizioni anima l’autunno di un borgo dalle profonde radici rurali. Un’occasione per far conoscere la cittadina a giornalisti giunti da tutta Italia alla scoperta delle tipicità enogastronomiche, artistiche, storiche e ambientali del territorio.

Ad accoglierci con entusiasmo troviamo il sindaco Pierpaolo Gualano, gli assessori Costanza di Viesti (commercio, turismo e attività produttive) e Lorena Di Salvia (pubblica istruzione, cultura e sport), il dirigente comunale Vincenzo Augello (ufficio segreteria Settore Affari Generali e Legali) e il presidente della Pro Loco Giorgio De Rogatis. Un team che ha voluto fortemente la manifestazione come segno del desiderio di rilancio di un territorio ricco di risorse e di potenzialità, soprattutto nel campo del turismo. “Ci piace pensare al nostro territorio come una vetrina di meraviglie tutte da scoprire che meritano di essere valorizzate anche attraverso processi di educazione all’emozione e alla tradizione. Per questo ringrazio tutti gli operatori del settore che hanno voluto condividere con noi questa esperienza unica nel suo genere e la prima realizzata a San Nicandro Garganico”, ha detto l’assessore Costanza Di Viesti riferendosi al primo tour per la stampa specializzata organizzato in città. E’ iniziato così il nostro approccio ad una località che opportunamente va riacquistando consapevolezza del proprio patrimonio culturale e ambientale e, pur in un momento difficile come quello attuale, ha deciso di impegnarsi per progettare un futuro da paese dinamico ed efficiente, ripensato con fiducia ed ottimismo.

Il nostro viaggio è cominciato dal mare e precisamente da Torre Mileto, la località che prende il nome dall’omonima torre aragonese del XVI sec. che imponente si staglia sulla linea di costa compresa fra le lagune di Lesina e Varano. Qui siamo stati ospiti dell’albergo Pertosa, una piccola e comoda struttura ricettiva al centro di un borghetto moderno su cui incombono le boscose pendici del Gargano; la loro peculiarità è quella di unire alberi d’altura con le essenze tipiche della macchia mediterranea in una fusione che rende il paesaggio davvero unico. Fitta oppure a macchia di leopardo e frammista a rocce che rivelano la natura a tratti aspra del territorio garganico, la vegetazione fa da suggestivo pendant alle onde del vicinissimo mare il cui sciabordìo giunge all’udito fin nelle nostre stanze. I toni grigi di questo autunno piovoso conferiscono un’atmosfera di austera solennità all’insieme, ma noi confidiamo nelle sfumature rosee dell’alba del giorno dopo. Il sole però si concede pochissimo, solo sparute striature accese sull’orizzonte orientale, quanto basta per avvolgere di magia i gesti di un pescatore solitario che nel crepuscolo tira la sua rete. Un gruppo di boghe guizzano nella cesta del pescato accanto a granchi dalle lucide e scattanti chele mentre cumuli di valve di cozze e vongole trascinate dalla corrente sulla larga spiaggia color ocra ci ricordano che lì di fronte, a circa 2 miglia dalla costa, c’è uno degli allevamenti di mitili più grandi d’Europa con 13 filari di 2000 metri lineari ciascuno, su un’area di 2 milioni di mq.

Ma ecco che il giorno si fa pieno e la mattinata ci riserva un’arrampicata alla Grotta dell’Angelo. Si tratta di una grande fenditura sul Monte d’Elio (reminiscenze solari nel nome ci parlano di antichi sincretismi fra paganesimo e cristianesimo), a circa 150 m. di altitudine, che raggiungiamo dopo una bella arrampicata nella fitta macchia. Il suo uso rituale dedicato da epoca immemorabile al culto dell’arcangelo Michele, ci colloca lungo quella variante della Via Francigena oggi nota come Via Sacra Langobardorum che fin dall’alto Medioevo conduceva in Puglia i pellegrini diretti in Terrasanta, non prima di aver fatto tappa alla grotta di Monte Sant’Angelo, quella da cui nel V° sec. il culto micaelico, dopo la leggendaria apparizione dell’arcangelo, si diramò in tutto l’Occidente. Nei dintorni c’è anche una terza grotta dedicata a San Michele, quella della vicina località di Cagnano Varano. Nella spelonca sannicandrese, articolata orizzontalmente in alcune brevi diramazioni, risultano frequentazioni umane fin dalla più remota antichità, come testimoniato dal ritrovamento di resti biologici, selci, graffiti e ceramiche che datano dal Paleolitico al Medioevo. Resti di una pila circolare, ricavata da un vano naturale nel quale confluiscono acque di origine carsica, attestano l’uso cultuale della grotta. Dalla bocca dell’antro, facendosi largo fra gli arbusti, lo sguardo spazia verso il mare, preceduto da ampie e suggestive distese di ulivi.

A circa un chilometro da Torre Mileto e dalla grotta che, come luogo di culto, fu una delle sue pertinenze, sorge ciò che resta dell’antica cittadella di Devia. Dal pianoro del Monte d’Elio su cui ha sede il parco archeologico, la vista spazia sul tratto di costa compreso fra le lagune di Lesina e Varano e, nelle giornate di cielo nitido, corre verso la sagoma delle Isole Tremiti raggiungendo persino il Gran Sasso e le montagne marchigiane. Si ritiene che Devia possa essere di fondazione bizantina, ma le uniche notizie certe sono quelle desunte da un documento del 1032 secondo il quale Giovanni, vescovo di Lucera, concesse all’abbazia benedettina delle Tremiti la chiesa di S. Maria iuxta litus maris, dietro pagamento di cinque soldi d’oro da versare al vescovo vita natural durante. Si sa anche che nell’XI secolo, vi approdò una comunità di origine slava e che l’economia del casale si fondò principalmente sull’agricoltura, sebbene i monaci gestissero anche qualche allevamento di anguille nei vicini laghi costieri. A causa delle incursioni saracene lungo la costa è probabile che Devia sia stata abbandonata dai suoi abitanti verso la fine del XIV secolo. Dopo alterne fortune, il sito fu lasciato per sempre anche dagli eremiti che l’avevano abitato da epoca immemorabile.
Se però del casale di Devia restano oggi solo tracce frammentarie fra le erbe del pianoro, pressochè intatto è invece quel gioiello unico di romanico garganico che è la chiesa di S. Maria di Devia, un edificio triabsidato a pianta basilicale dell’XI sec. nel quale si custodiscono cicli di dipinti parietali di gusto bizantineggiante, datati tra i sec. XII e XIV. Abbandonata per secoli all’incuria e destinata a ricovero di animali, la chiesa è stata restaurata negli anni ’60 consentendo il recupero dell’edificio e dei dipinti. Questi ultimi comprendono un Cristo Pantocrator, una Madonna Odegitria,diverse figure di santi, una Madonna in Trono con Bambino e Santi, una Annunciazione, una Deesis(con Cristo benedicente tra la Madonna e san Giovanni Battista) e diversi graffiti di epoca medievale con figure di soldati e navi (la chiesa è attualmente visitabile solo dall’esterno, a causa di un fulmine caduto sul tetto la scorsa estate che ne ha reso inagibile temporaneamente l’interno). Interessante il ritrovamento a Devia di un tegolone con tracciata una Triplice Cinta Sacra, un simbolo molto antico ritrovato persino presso civiltà preistoriche e megalitiche, identificante, almeno secondo una certa tesi, particolari punti energetici del suolo. Nell’area di Devia – che ospita anche le piccole grotte del Biancospino e del Terebinto – sono state ritrovate tracce di un villaggio dell’Età del Bronzo, resti di un insediamento che potrebbe avere legami con quello rinvenuto nei pressi della non lontana Torre Mileto.

Ritorniamo dunque nella piccola frazione di San Nicandro che accanto alla scogliera sovrastata dalla torre aragonese ha rivelato tracce di insediamenti che vanno dal Neolitico al Medioevo. A farci da guida ci sono l’architetto Maria Ritoli dell’associazione Argod e la dott.ssa Giovanna Soccio dell’associazione Penelope, che con determinazione sono riuscite a trasformare la torre, un tempo abbandonata, in un vivace centro visite del Parco nazionale del Gargano. Il tempo è inclemente ma riusciamo ad immaginare lo splendore del paesaggio sotto un sole che accende i colori tra il verde lussureggiante della macchia mediterranea e il limpido azzurro dell’Adriatico, con sullo sfondo l’inconfondibile profilo delle isole Tremiti che qui trovano il punto costiero ad esse più vicino. Negli adiacenti fondali marini giace il relitto di una marsiliana, la Poma Santa Maria, affondata in circostanze misteriose nel 1607; ufficialmente nave commerciale, si sospetta che in realtà trasportasse anche un carico illecito di armi, tra cui alcuni cannoni: di essi tre sono stati recuperati dalla Soprintendenza Archeologica della Puglia e sono oggi conservati presso la Torre.

Stando alle fonti, quest’ultima dovette avere un suo nucleo originario già nel XIII sec. ma oggi la vediamo in versione quadrangolare del XVI sec. delimitata nella parte superiore da una corona a cinque caditoie a scopo difensivo e da una “piazza d’armi” da cui è possibile scorgere tutte le altre torri costiere della zona, come quelle vicine di Calarossa e di Scampamorte (solo nel Gargano erano presenti 28 torri costiere a fronte delle 134 della Puglia e delle 382 dell’intero Regno di Napoli). Sul lato Sud una scalinata rampante d’epoca tarda permette agevolmente di raggiungere quello che, doveva essere l’unico accesso della Torre servito in origine da scale retrattili. Fra Sei e Settecento, Torre Mileto fu sede di una guarnigione stabile di soldati che difendevano l’area dagli attacchi dei Turchi, l’ultimo dei quali documentato risale al 1649. Una sorgente detta “La funtanella”, ancora presente sulla scogliera a breve distanza, permetteva l’approvvigionamento di acqua dolce. Nell’Ottocento l’aggiunta di alcune superfetazioni testimonia di altri utilizzi della Torre, via via diventata stazione meteorologica e semaforica, punto di segnalazioni luminose notturne e, nel Novecento, caserma della Guardia di Finanza, con annessa stazione radio, prima di essere definitivamente abbandonata verso la fine degli anni Sessanta. Fino alla metà del secolo scorso, collocati sulla scogliera a lato della Torre erano presenti anche due trabucchi, le tipiche strutture da pesca in legno con rete annessa presenti anche sulle coste molisane e abruzzesi, in Puglia tutelate come patrimonio monumentale dal Parco Nazionale del Gargano.
Il territorio Gargano, a causa del diffuso carsismo, è disseminato di grotte, alcune facilmente praticabili e altre accessibili solo dopo una adeguata preparazione speleologica. Anche San Nicandro ne annovera di diverse, alcune delle quali scoperte dal gruppo archeo-speleologico Argod, la locale associazione di giovani speleologi impegnati nella tutela del patrimonio storico, artistico ed ambientale del Gargano. L’ultima loro scoperta è la Grotta delle Colonne d’Ercole, ricca di concrezioni, che va ad aggiungersi alle altre presenti nel territorio comunale: quelle di Pian della Macina, Papaglione e delle Streghe che, insieme alla dolina di Pozzatina, fanno di San Nicandro Garganico il capoluogo del carsismo in Capitanata e una fra le mete preferite dagli speleologi di tutta Italia. E proprio la grotta di Pian della Macina è stata la meta della nostra nuova escursione, breve ma eccitante per dei neofiti della speleologia, considerato che trattasi di cavità dotata di un minimo di difficoltà di percorso e pertanto necessita dell’accompagnamento di personale specializzato. Muniti di caschi con led o fiammella ad acetilene ed accompagnati da Maria Ritoli, Giovanna Soccio, Alessandro Palma e da alcuni loro colleghi, ci siamo calati nel ventre della terra alla scoperta di vele, colate, drappi, canne d’organo e stalagmiti, ossia di tutte quelle eccentriche concrezioni che accendono la fantasia del visitatore e che si sono formate nell’arco di millenni di lavorìo dell’acqua attraverso la roccia calcarea. Un’esperienza assolutamente da non perdere. Da segnalare infine l’iniziativa del gruppo Argod volta a rendere fruibili ai ragazzi disabili le grotte di più facile accesso: un progetto articolato che fa seguito ad un’esperienza già realizzata che ha offerto importanti spunti per gli studi sul valore terapeutico (in certi tipi di patologie) della permanenza in grotta.

Sempre legata ai fenomeni carsici della zona è infine la Dolina Pozzatina, una delle più vaste e belle di Puglia, nonché la seconda d’Europa con i suoi oltre 650 m. di lunghezza, 400 di larghezza e 100 di profondità. E’ uno spettacolare esempio di carsismo di superficie a cui si aggiunge il fascino di una vegetazione lussureggiante fatta di lecci e querce. Sulla parete Nord si aprono due grotte mentre una stretta mulattiera consente di raggiungerne il fondo, il cui fertilissimo terreno viene destinato a colture di vario genere fra cui quella del grano.
Adiacente al territorio di San Nicandro Garganico ed a pochi metri dalla costa c’è il Lago di Lesina, onnipresente nelle splendide visuali che l’occhio può scorgere dai luoghi più elevati della zona. E’ il 9° lago italiano per dimensioni e il secondo dell’Italia meridionale, spettando il primato al poco distante Lago di Varano che è anche il maggior lago costiero italiano. Lesina è un bacino salmastro di scarsa profondità (meno di due metri) nel quale le acque dolci delle falde freatiche e degli apporti fluviali e meteorici si mescolano a quelle salate del Mare Adriatico col quale comunica attraverso due canali, l’Acquarotta e lo Schiapparo. Nella parte orientale del lago si trova la Riserva naturale Lago di Lesina, un’area protetta statale istituita nel 1981 e dotata di un Centro visite del Parco Nazionale del Gargano gestito dalla Lipu. Fra i fitti canneti della cosiddetta “sacca orientale” ci sono alcune postazioni di birdwatching che permettono di osservare, senza disturbarli, diverse specie di uccelli tipici delle zone umide che qui stazionano durante le loro migrazioni (ne sono state contate circa 200, di cui 69 legate alla laguna per necessità riproduttive; concentrazioni che si possono trovare solo sul delta del Po o in quelli dei grandi fiumi del Nord Africa o del Sud Europa).
Dopo aver costeggiato per un tratto il fiume Lauro, immissario del Lesina, lì dove il Consorzio per la Bonifica della Capitanata gestisce un’idrovora che impedisce all’area di impaludarsi, abbiamo raggiunto un tratto del lago nei pressi della striscia di terra che lo separa dal mare. Sulla larga spiaggia color ocra è possibile incontrare pescatori che praticano la pesca col tramaglio, una rete molto lunga che viene stabilmente adagiata in mare lasciando che siano le prede a raggiungerla ed a rimanervi impigliate. Procedendo invece verso l’entroterra, in c.da Muro, l’anziano pescatore Giuseppe Pertosa ci ha spiegato come molte delle terre comprese fra la linea di costa e il lago siano state sottratte al mare grazie all’azione dei pescatori che lungo il lago praticano da tempo immemorabile la pesca delle anguille.

Piccole colture di agrumi e ortaggi spiccano oggi su questi lembi di terra, alcuni dei quali hanno rudimentali pontili di attracco sul lago per i sandali, tipo di imbarcazioni che i laghi di Lesina e Varano condividono con i pescatori della Laguna Veneta. Su uno di questi sandali, un pescatore della zona ci ha traghettati per un breve giro, permettendoci di prendere contatto con la pace di un luogo davvero straordinario, dove il silenzio è interrotto solo da qualche alito di vento fra i canneti e i folti cespugli di salicornia e dal verso degli uccelli migratori, come gli aironi bianco e cinerino che ci hanno salutati con il loro elegantissimo volo. Sotto il pelo dell’acqua si gioca invece la secolare lotta fra l’uomo e le anguille che qui hanno uno dei loro habitat preferiti. I pescatori piazzano le paranze (sbarramenti in rete sintetica un tempo fatti di canne intessute) in linea perpendicolare con le rive della laguna, creando un passaggio obbligato per le anguille verso i bertovelli, speciali nasse poste ad intervalli regolari lungo la paranza nelle quali le anguille restano imprigionate prima di finire sulle tavole come una delle prelibatezze della cucina garganica (di esse è stata trovata traccia, con relative ricette, persino in un codice benedettino del Medioevo).

Fame di sud