SAN NICANDRO GARGANICO, CONOSCIAMO MEGLIO QUESTO PAESE (3^ PARTE)

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Poiché i tre articoli sulla “Storia di San Nicandro” hanno fatto rilevare migliaia di visualizzazioni, si vuole proporre un ulteriore contributo (in quattro puntate) di notizie di carattere storico, mitico e turistico per la conoscenza di San Nicandro.

Il popolo di San Nicandro è lavoratore, assai attaccato alla famiglia, alle tradizioni del suo paese ed ha dovuto lottare assai duramente per conquistare l’attuale benessere che lo pone tra le popolazioni del comprensorio a più alto livello di vita. Ha trasformato le paludi in feconde terre produttive che danno un buonissimi reddito agricolo, ha risolto i problemi del bracciantato agricolo in modo ammirevole ed inoltre contribuisce col proprio lavoro, ma con la propria intelligenza ed onestà allo sviluppo turistico e sociale della zona. Molto, fino a qualche tempo addietro, si parlava del brigantaggio a San Nicandro. Si è scritto che il brigantaggio a San Nicandro aveva profonde radici nel popolo. Ma perché? Perché attraverso i secoli di servitù nazionale e straniera, il fiero popolo di questa cittadina ha sentito pesare sempre il tallone di ferro dei signorotti del luogo. Ha dovuto subire la servitù della gleba, l’assurdo diritto dello “jus primae noctis”, è stato sempre – volutamente – tenuto in uno stato di ignoranza veramente sconfortante. E’ allora decise di reagire. Ma come? Dandosi alla macchia e formando delle bande armate in continuo agguato molte spelonche dell’Ingarano, fortilizio inaccessibile alle forze dell’ordine costituito. Perciò il brigantaggio, l’abigeato sono stati fiorenti per secoli in questa località, ma quando le condizioni di vita sono migliorate, quando la comunicazione con centri più progrediti sono state facilitate, il brigantaggio è andata graduatamente scomparendo. Ciò è tanto vero che l’indice di criminalità di San Nicandro, che era uno dei più alti del comprensorio, attualmente è all’ultimo posto nella statistica criminale, mentre da una accurata indagine, risulta che San Nicandro ha – in percentuale – il maggior numero di giovani iscritti alle scuole, tra tutta la popolazione scolastica della provincia di Foggia. E’ questo un primato di cui può andare ben fiero ogni sannicandrese. Anche la disoccupazione è pressocchè inesistente. L’occupazione “in loco” dei nativi è facilitata dallo sviluppo del turismo e poiché non mancano né siti incantevoli, né mare, né lago, né aria pura. Non si è difficile profeti nel predire anche per San Nicandro un fiorente avvenire turistico.

Numerose sono le specialità gastronomiche di San Nicandro: le mozzarelle, la ricotta, ma la più buona è senz’altro il pane, il buon pane di frumento, cotto negli antichi forni a legna. Impastato durante la notte dalle massaie e lievitato con un pizzico di pasta inacidita, viene informato in forme che variano dai 3 a 5 kg e cotti nei forni del paese Appena cotta, la pagnotta emana un soave odore di… casa antica dove il pane era ancora l’alimento principale di queste popolazioni frugali. La forma alta e la lievità del pane fanno sì che esso si conservi fresco anche dopo sei o sette giorni dalla sua cottura. Ed è una usanza gentile e ben gradita offrire all’ospite questo pane che è un nostalgico ricordo del paese natio. Quando nelle lontane e convulse metropoli due sannicandresi si incontrano, il loro primo comune rimpianto è: “Ah! Il pane di San Nicandro”. Al ricordo di quel pane tornano i ricordi del paese e del mistico sono della campana grande nel tocco magico delle “due di notte”.

Religioso per natura e tradizione, il popolo sannicandrese conserva ancora intatti gli antichi riti religiosi con lo stesso amore degli antenati. Per esempio, la sera del Giovedì Santo la processione si snoda lentamente al canto degli inni religiosi lungo le strade del paese. Grandi statue della Passione, recate a spalla dai nativi, procedono una Madonna Addolorata che segue il Cristo Morto, ammantata di gramaglie, sul cui petto brilla il cuore trafitto di sette spade d’argento. Alla luce tremolante delle fiaccole la scena assume una tragicità veramente suggestiva e commovente. Le donne del luogo piangono di commozione per il dolore della Grande Madre che segue il Figlio morto sulla Croce il cui corpo è ricoperto di fiori che ogni bambino vi ha deposto. La grande campana della chiesa di Santa Maria del Borgo asciugherà quelle lacrime quando il bianco vessillo della Resurrezione si alzerà verso l’azzurro del cielo per annunciare al popolo la grande novella di Cristo risorto.

Un’altra tipica espressione del folklore locale è la tradizione della “Ndrandla”. Essa è originata dalle due qualità fondamentali del popolo di San Nicandro: l’a more verso la propria donna ed il profondo senso religioso. La “Ndrandla” cera e propria era la tavoletta di duro legno di cerro lunga 70 cm e largo 20 cm che serviva alle donne del luogo per fare il bucato. Durante la settimana santa veniva appesa, per mezzo di robusti funi, al vano delle porte dei tipici “bassi” e serviva da piedistallo alle coppie di fidanzati che, al primo squillo della campana che annunziava la Resurrezione, al mattino del Sabato Santo, davano l’avvio all’altalena e su..su..su i giovani, in piedi sulla tavoletta, allacciati alla vita, dondolavano verso il cielo di primavera con le funi inghirlandate di fiori e di trami di olivo cantando, a due voci, gli strambotti amorosi.

“Jorè, che splendore ‘ndo ciel’ ogg’ e lu cor’ m’ sent tutt’ ardent’ d’amor”. E poi: “E iore.. quiss’ è amor’ d’ Pasqua e grand amor sim’ figghje d0 lu S’gnor”. Tale tradizione era più sentita nella parte antica di San Nicandro, a Terravecchia, e allora tutto il rione fino all’alba era in movimento per mettere rametti di olivo e fiori alle funi per cercare di rendere più gaia la festa e più bella la propria altalena. A volte, sotto l’architrave della porta, si accendevano lampadine colorate ed era un brulichio festoso, un vociare, un affaccendarsi di gioia nell’attesa dell’attimo irrepetibile della Resurrezione. Salivano sull’altalena infiorata non solo i fidanzati, ma anche vecchi sposi, nonno e nipote, amico ed amica e..via.. in un dondolio festoso cantando ingenui canti d’amore, canti di primavera sgorgati dalla semplice anima del popolo, canti di felicità pura, di gioia piena di gloria dell’amore vero e gloria di Cristo Risorto. Ma ora, disgraziatamente, questa originalissima tradizione popolare derivata, forse, dagli antichi riti pagani in onore della Natura risorgente, va lentamente scomparendo, uccisa dal progresso.. televisivo e dal continuo livellamento di ogni forma di divertimento. Resta soltanto il ricordo melanconico di questa festa gioiosa e i sannicandresi più anziani ora sospirano: “Che cosa bella i Ndrandla d’ Sant L’candr’”. (Continua)

Luigi Scocco

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