SAN NICANDRO, ECCOCI AL “PIANO” (MMEZ’ O CHIAN’)

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Un’altra bella immagine di San Nicandro descritta da Silvio Petrucci nella sua “Alba Novecento” che riguarda il “Piano”, in dialetto “Mmez o chian”.

Il “Piano”, forse, era detto così in contrapposizione alle vie a gradinate di altri rioni e a quelle del paese antico abbarbicato ai bastioni del Castello, nel borgo della Terravecchia e che erano viuzze strette, contorte, semibuie, mentre esso si stendeva come un nastro diritto, pianeggiante, lucente.

Era l’arteria di un vero e proprio “quartiere degli uffici” perché lì si svolgeva la maggior parte della vita amministrativa, essendovi accentrate le sedi della Pretura, della Ricevitoria postelegrafica, dell’Ufficio delle Imposte e del Registro, alle quali si sarebbe aggiunta quella del Municipio. E Lì, sul “Piano” il paese aveva anche il suo foro, in quale Largo che, quasi per reazione protestataria di anticlericali alle due chiese lo dominavano “dei Morti” e “del Carmine”, era stato battezzato “Giordano Bruno” e nel quale si svolgevano adunate popolari e comizi (prima si chiamava “Piazza del Plebiscito; durante il ventennio fascista fu battezzato “della Rivoluzione Fascista”; poi prese i nomi di Ferrer e Giordano Bruno e oggi è intitolato a Domenico Fioritto).

Vien fatto di pensare, ai giorni nostri, a proposito del “Piano”, a una di quelle strade che nelle città vengono chiamate coi comi da “Quartieri Alti”, perché, indubbiamente, esso si distingueva da tutte le altre strade del paese per una certa linea di signorilità, vantando, oltre alla sua ampiezza, una pavimentazione quasi di lusso, fatta di grosse basole di pietra pregiata di Apricena e di brutti lastroni di lava vesuviana e sfoggiando, infine, per una buona metà del percorso, due larghi marciapiedi sui quali si sostava in ozio davanti ai Circoli e ai Caffè. (D’estate vi bivaccavano e la notte vi dormivano distesi sulla nuda pietra i mietitori, con le falci tra le braccia).

In quella strada con i suoi bei palazzi, i migliori bar e vari e ricchi negozi, c’era il “Circolo dell’Unione” il più importante del paese. Era una specie di club dei “signori”, appellativo che veniva allora gratuitamente dato a tutti coloro che portavano il colletto inamidato, quasi un elemento decorativo che distingueva i sannicandresi, tra i quali era molto diffuso, dagli abitanti di altri paesi garganici; lo frequentavano gli esponenti della borghesia; anzitutto l’élite intellettuale, medici e avvocati, insegnati e sacerdoti, studenti e funzionari – il Pretore, il Cancelliere, il Segretario Comunale, il Ricevitore postale e quello delle Imposte e del Registro – e poi qualche possidente grosso commerciante e agricoltore. Era denominato “dell’Unione2 perchè in esso, in passato, confluivano praticamente i due grossi partiti amministrativi, quello dei “Curli” e quello degli “Spuntoni” i cui esponenti, nel periodo elettorale, si trovavano l’un contro l’altro armati, salvo a tornare, a lotta finita, a giocare insieme a carte o al biliardo, o a leggere il giornale allo stesso tavolo. Il “Curlo” nel dialetto locale è la trottola e lo “spuntone” è la sua punta d’acciaio; e dire “curli” e “spuntoni” era come dire maggioranza e opposizione.

La novità del “Piano”, quella che giustifica il richiamo ai “quartieri alti” era dovuta alla presenza dei grandi palazzi signorili che prendevano il nome delle casate più cospicue: Zaccagnino, De Pilla, Palmieri, Vocino. Qualche preziosità ciascuno la conserva nell’interno: la famiglia De Pilla, ad esempio, aveva un palazzo in cui si ammirava, tra l’altro, una volta festosamente affrescata dal Verrini, mentre nelle stanze di Don Matteo Zaccagnino erano esposte tele cinquecentesche e ottocentesche, senza parlare di qualche rarità bibliografica custodita in ricche biblioteche.

Caratteristiche comuni di ogni palazzo erano: il vasto atrio d’ingresso che si apriva oltre al portone monumentale e continuava nel cortile dal quale si andava alle rimesse per le carrozze di vario tipo e alle scuderie; uno scalone d’onore ed infine un giardino.

Altra caratteristica comune di quei palazzi: ciascuno era affidata ad un “fattore” che ne curava la manutenzione e la custodia. Era un uomo di fiducia e i suoi poteri si estendevano incontrollati su immensi patrimoni e su nutrite schiere di dipendenti.