SAN NICANDRO: “C’ R’SPETTA U’ CAN CH’ L’AMOR DU PADRON”

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Continua una nuova serie di articoli che parlano sui modi di dire e degli aforismi locali per capire e analizzare la quo ed offrire una visione chiara, lucida e trasparente della condizione umana in cui ognuno di noi può legittimamente dedurre o trarre da ciascuno di essi le considerazioni che gli sembrano più ovvie in riferimento ai tempi, alle usanze, ai problemi, ai comportamenti e agli altalenanti rivolgimenti che la società sta attualmente vivendo. Gli articoli sono tratti dal libro “Voci di Capitanata” di Donato D’Amico.

Il detto di oggi è: “C’ r’spetta u’ can ch’ l’amor du padron” cioè “Si rispetta il cane per il padrone”.

Il proverbio ci suggerisce che nella vita non sempre possiamo agire secondo ragione perché ci sono situazioni e circostanze in cui, per motivi di opportunità è d‘uopo soprassedere a farti interessi o, addirittura, perdonare marachelle e sotterfugi. Come dire: la prudenza suggerisce di socchiudere gli occhi, di fingere che nulla di grave sia successo. Il tutto, in omaggio ad un certo “quieto vivere” consigliato, appunto, da ragioni, criteri, e questioni di convenienza sociale se non addirittura sa motivi discrezionali o di riservatezza. Non è una violenza che, in simili circostanze, ognuno di noi fa alla propria coscienza, no. È solo un accorgimento dettato da principi che vanno bene al di là dei nomali rapporti umani e sociali. Diciamo che sono ragioni di ordine affettivo e morale, quali il comportamento, il perdono, la benevolenza, l‘amorevolezza e l‘amicizia.

Certo, è difficile fermare i nostri impulsi interiori, reprimere i nostri irrefrenabili istinti, vincere i momenti di collera e di rancore nei confronti di coloro che ci hanno danneggiato o offeso o verso chi ha commesso una colpa che, pur escludendo ogni diretta intenzione di nuocere, ci ha arrecato danno materiale e morale. E tuttavia, non mancano situazioni in cui il dominio della propria impulsività consegue socialmente maggior danno che non l‘affronto subito. Non si tratta di assoggettarsi al voler d gli altri, ma di considerata la volontarietà e la gravità dell‘accaduto, non solo, ma anche le opportunità o la convenienza sociale del nostro intervento.

Il proverbio vuole essere un incitamento a ponderar bene il nostro operato e non solo e non tanto per il rispetto che si deve a chi potrebbe essere coinvolto nell‘azione giudiziaria quanto perché, là dove il danno è irrimediabile, il perdono non è un atto che ci gratifica socialmente e moralmente. Con questo non desideriamo sospingere nessuno a perdonare ad ogni costo e tanto meno di offrir l‘altra guancia. Ciascuno di noi sarà in grado di valutare le intenzionalità e la gravità dell‘azione subita e trarne le dovute conseguenze. Cio che vogliamo ricordare è che spesso “una rabberciata pace vale più di una causa vinta”.

Ora, al di là di questo gratuito consiglio, ed il caso di ricordare che spesso possiamo ritrovarci in Situazioni talmente incresciose che non solo eh prudente soprassedere, ma, a volte, la saggezza consiglia addirittura di rinunciare ad una eventuale azione giudiziaria per tutti i risvolti che essa può comportare non solo sul piano economico, ma soprattutto su quello ambientale, affettivo e morale. Poiché non si vive di solo pane, ben venga il nostro motto popolare a sospingersi nella direzione di quei valori che indubbiamente varranno a redimere e liberare l‘uomo da ogni acredine e asprezza nutrite nei confronti del proprio simile. Se la vita è per antonomasia attività e questa, per esplicarsi, richiede fondamentalmente la presenza o la compresenza dell‘altro, allora la vita è soprattutto socialità, il che implica i concetti di comprensione, di fiducia e dì solidarietà, che poi, sono o dovrebbero essere i concetti fondanti la civiltà e la democrazia del terzo millennio.