SAN NICANDRO ALL’INIZIO DEL ‘900: IL DEPOSITO (U D’POST)

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Ancora una descrizione di San Nicandro tratta da “Alba Novecento” di Silvio Petrucci.

Ultimata da discesa della “coppa dell’Accetta” (Copp l’accitta) e la “piana dei pozzi”, dopo una leggera curva e un’ultima breve salita, la statale arriva in paese, senza prenotare al suo interno, ma tracciando la prima strada cittadina battezzata “Via Provinciale”. Da una parte l’intero paese, dall’altra pochi fabbricati dietro i quali, nell’aperta campagna dominata dal colle di San Michele, di stendeva una zona impervia nella quale un giorno sarebbe stata ubicata l’attuale stazione ferroviaria e sarebbe sorto un nuovo grossi rione. Per designare il punto di “via Provinciale”’ i paesani ricorrevano ad una curiosa parla dialettale “u d’post” che letteralmente significa deposito.

Il “deposito” era allora la stazione di posta delle diligenze che vi transitavano quattro volte al giorno ed era l’obbligatorio punto di passaggio e di sosta delle carrozze, degli sciarabbà e di quei carretti carichi di mercanzie. Il “deposito” era una zona prevalentemente abitata da locandieri e osti, tavernieri e facchini, caffettieri, cantonieri e maniscalchi, nonché venditori di pane e “scamorza”: due rinomati prodotti locali di cui ogni viandante non mancava di fare provvista.

La stazione di posta era integrata da altre due capolinea di diligenze, il cui servizio, gestito da due postiglioni paesani, Leparino e Lucarelli, era limitato al percorso Sannicandro-Apricena-Sansevero. Una stazione a parte era quella del gestore di uno sciarabbà. Apricena ci appariva allora come un primo traguardo nei segni dei nostri viaggi. Sansevero, a sua volta, ci avvinceva come un miraggio, perché capoluogo del circondario, centro vinicolo di crescente rinomanza nazionale, sede di scuole medie; era la prima “città “. A portata di mano dalla quale si irradiava la fama delle sue bande musicali e di fuochi di artificio in occasione della festa del “Soccorso”.

Nello stesso rione del “deposito” c’erano due mulini: l’uno, quello della famiglia Mascolo, destinato a trasformarsi prima in una centrale elettrica e poi in un cinematografo, l’altro della famiglia Pertosa che aveva il privilegio di innalzare nel cielo l’unica altissima ciminiera del paese.

La stazione di posta, dunque, ogni giorno diventava un animato punto di convegno, specie al passaggio della prima delle quattro corriere, quella che arrivava al mattino tra le dieci e le undici dalla stazione ferroviaria di Apricena. Ci si affollava intorno alla diligenza inzaccherata di fango o infarinata di polvere, e ai cavalli spumeggianti e fumanti di sudore. I motivi di attrazione erano vari: c’era un po’ l’illusione di un contatto con il mondo che ci appariva così distante e sconosciuto. Poi lì per lì si aprivano i pacchi “fuori sacco” dei giornali ed ecco le notizie fresche che ci mandavano da Napoli e da Roma; e c’era sempre qualche personaggio nuovo che richiamava l’attenzione dei paesani e del quale solo alcuni giorni dopo si sapeva che si trattava di un grande giornalista, di uno studioso straniero, di un deputato, di un alto funzionario governativo, di un artista di fama. Un personaggio che non viaggiava in incognito, invece, era il commesso viaggiatore, un personaggio inconfondibile, subito riconoscibile che si presentava con l’inseparabile bagaglio di scatole, valigie o casse di campionari.

Solo nel 1931 il “deposito” perdette la sua importanza con la scomparsa dell’autocorriera che era stata già preceduta da quella della diligenza, con l’arrivò della ferrovia. La zona del “deposito”, in conclusione era un piccolo mondo a se’ la cui vita girata attorno alla stazione delle diligenze: il re di quel regno non poteva essere che il capostazione, come poteva essere definito il procaccia postale, Baldascino.