RIMPATRI: DALLE PROMESSE ALLE SOLUZIONI POSSIBILI

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Il nascente governo ha messo al centro dell’agenda sulla migrazione il tema del rimpatrio degli irregolari e di coloro i quali vedono respinta la domanda d’asilo. In campagna elettorale avevano già fatto scalpore le dichiarazioni di Silvio Berlusconi, secondo cui in Italia sarebbe necessario rimpatriare 600 mila migranti irregolari, definiti “una bomba sociale pronta ad esplodere”. Il contratto di governo tra Lega e Movimento 5 Stelle parla invece di 500 mila irregolari, in linea con le stime Ismu. Secondo l’agenzia europea Frontex si tratta di obiettivi irrealizzabili, considerando che i rimpatri effettuati complessivamente nel 2017 da tutti i paesi UE sono stati 150 mila. Quanti sono allora i rimpatri possibili? E perché è così difficile attuarli?

Nel febbraio 2017, circa due mesi dopo l’insediamento del governo Gentiloni, il Consiglio dei ministri approvava, su proposta dei ministri Minniti e Orlando, un decreto legge (poi convertito nella legge 46/2017) per l’introduzione di “disposizioni urgenti per l’accelerazione delle procedure amministrative e giurisdizionali in materia di protezione internazionale”, con l’obiettivo dichiarato di dare ossigeno al sistema di accoglienza dei richiedenti asilo sul territorio e aumentare i rimpatri di chi non ha diritto alla protezione internazionale. Già allora fu fatto notare che l’obiettivo era raggiungibile solo siglando nuovi accordi bilaterali con i paesi di origine e di transito. Dopo un anno, la situazione non è cambiata: secondo Eurostat, nel 2017 l’Italia ha effettuato appena 7 mila rimpatri di irregolari, soprattutto permessi di soggiorno scaduti, e 11 mila respingimenti alla frontiera, in prevalenza di cittadini giunti via aereo con documenti non in regola.

Perché i rimpatri sono così difficili. Uno dei punti chiave del decreto Minniti-Orlando riguardava il “potenziamento della rete dei centri di identificazione ed espulsione (Cie), rinominati centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), in modo da garantirne una distribuzione omogenea sul territorio nazionale”. Secondo la relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza, presentata in Parlamento nel Dicembre 2017, la bassa percentuale di allontanamenti era infatti da imputare proprio alle carenze dei Cie e alla mancanza di accordi bilaterali: la prassi infatti è quella di adottare il provvedimento con intimazione a lasciare il territorio entro sette giorni, con evidenti limiti di efficacia. Nelle intenzioni del ministro, i Cpr avrebbero dovuto essere strutture di piccole dimensioni, una per ogni regione, superando le principali criticità del vecchio sistema (sovraffollamento e tempi lunghi). A fine 2017, secondo la relazione della commissione d’inchiesta, non sono stati adibiti nuovi Cpr, ma solo riconvertiti quattro ex Cie, con una capienza effettiva di appena 374 posti, appena un quarto rispetto ai 1.600 previsti. Senza la piena operatività dei Cpr, lo straniero espulso riceve solamente un invito a lasciare il paese, che nella maggior parte dei casi rimane lettera morta.

Il problema principale rimane comunque la difficoltà di trovare collaborazione da parte degli stati di origine: senza accordi di riammissione, infatti, una persona rimpatriata non viene fatta entrare nel paese. Oltre agli accordi già stipulati con i paesi del Nord Africa e con la Nigeria, negli ultimi due anni si sono fatti passi avanti con Niger (stipulato dall’Ue), Sudan, Tunisia e Libia. I rimpatri continuano però ad avere costi molto elevati, sia per la gestione delle singole pratiche (Frontex indica un costo medio di 5.800 euro: realizzarne 500 mila costerebbe dunque quasi 3 miliardi), sia per la contropartita che i paesi chiedono per stipulare l’accordo.
Da non sottovalutare nemmeno le implicazioni geo-politiche degli accordi, specie in una situazione instabile come quella del Mediterraneo, e la questione dei diritti umani, non sempre garantiti dai regimi con cui li si stipula. Evidentemente, queste trattative, seppur necessarie per arginare i flussi, tolgono legittimità politica e morale alla macchina delle espulsioni e alla gestione complessiva delle migrazioni.

Una soluzione pragmatica potrebbe essere quella di stabilire quali categorie di irregolari debbano avere la precedenza nei rimpatri: ad esempio, si potrebbe seguire il criterio della sicurezza (precedenti penali) o quello del diniego della domanda d’asilo. Secondo i dati Eurostat, nel 2017 il tasso di accoglimento delle richieste d’asilo in Italia è rimasto stabile intorno al 41 per cento (vicino al 46 per cento della media Ue): nel calcolo rientrano non solo i riconoscimenti dello status di rifugiato (9 per cento), ma anche i permessi per protezione sussidiaria (7 per cento) e umanitaria (25 per cento).

In altri termini, nell’ultimo anno sono state accettate dal nostro paese circa 32 mila domande, mentre quelle rifiutate sono state 46 mila. Riuscire a rimpatriare tutti i richiedenti asilo denegati sarebbe già un grosso risultato, che porterebbe immediatamente a un raddoppio del numero di allontanamenti.
Lo stesso discorso può essere fatto a livello europeo, dove le richieste d’asilo respinte nel 2017 sono state oltre 500 mila. Anche in questo caso, passare da 150 mila rimpatri a 500 mila sarebbe un successo.
Le strade da seguire, allora, sono principalmente tre. La cooperazione con i paesi di origine e di transito, in linea con il quadro di partenariato avviato nel 2016 dal Consiglio europeo con Etiopia, Mali, Niger, Nigeria e Senegal. L’armonizzazione delle procedure di asilo tra i vari paesi europei, anche con la revisione (già in programma) degli accordi di Dublino. La riapertura di canali migratori legali, attenti alle esigenze specifiche dei singoli stati e volti a garantire un’alternativa ai migranti “economici” che oggi giungono in Europa in maniera irregolare. Una quarta strada potrebbe essere quella del potenziamento dei rientri volontari assistiti (Rva), finora riservati a cittadini extracomunitari irregolari o a rischio di irregolarità o in situazione di vulnerabilità, con numeri molto bassi.

Per fare tutto ciò, occorre una condivisione degli obiettivi e delle responsabilità tra gli stati membri. E questo sarebbe il risultato più importante.

Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin