PONTE MORANDI: NON SI RICOSTRUISCE CON GLI ANNUNCI

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Dopo il tragico crollo del ponte Morandi, lo scorso 14 agosto, le reazioni sono state guidate più dall’emotività che dal ragionamento. Certo, il disastro è stato tale da rendere comprensibili le parole a caldo, ma l’annuncio di decisioni che segnano una svolta a U nella politica autostradale del paese, senza accertamento dei fatti e delle responsabilità e senza aver avuto il tempo di elaborare una strategia efficace, oltre che coerente con i principi dello stato di diritto, non appare una grande idea. Sembra trasparire l’intento di sfruttare la tragedia per stracciare i contratti con i concessionari autostradali e, soprattutto, per fare la figura dei Robin Hood agli occhi dell’opinione pubblica. Ma, come ha ammonito Alessandro Penati in un suo intervento su Repubblica, rispettare i contratti sottoscritti dallo stato, seppure dai governi precedenti, deve essere un dovere per qualsiasi governo, anche perché fondamentale per quella credibilità di cui l’Italia ha disperato bisogno. Si può mantenere la credibilità dello stato anche arrivando a revocare la concessione di Autostrade per l’Italia o, come suggerisce lo stesso Penati, imponendo risarcimenti civili e penali attraverso la class action. Ma se e quando saranno stabilite le effettive responsabilità del concessionario e non emettendo giudizi precostituiti.

La soluzione caldeggiata da una parte del governo di far ricostruire il ponte da Fincantieri con il finanziamento di Cassa depositi e prestiti è una delle soluzioni poco meditate e molto mediatiche. Non è chiaro come si pensi di aggirare settanta anni di legislazione italiana ed europea e assegnare – non si sa bene con quale procedura diretta – una ricostruzione di tal tipo a una società per azioni (ancorché a maggioranza pubblica) e non al concessionario o al vincitore di un’apposita gara europea. Così facendo, tra l’altro, si porrebbe il costo della ricostruzione direttamente sulla finanza pubblica, in un momento in cui invece da più parti si considera necessario evitare lo scatto automatico delle aliquote Iva, ridurre il costo del lavoro, porre argine alla povertà crescente (per non parlare della pressione fiscale e del debito pubblico).

Si è poi così sicuri di affidarsi a una società che si definisce “uno dei più importanti complessi cantieristici al mondo e il primo per diversificazione e innovazione. È leader nella progettazione e costruzione di navi da crociera e operatore di riferimento in tutti i settori della navalmeccanica ad alta tecnologia”? Vero che Fincantieri controlla Fincantieri Infrastructure, che “è specializzata nella progettazione, realizzazione e montaggio di strutture in acciaio su progetti di grande dimensione quali ponti, stadi, porti oltre a progetti di tipo industriale, commerciale e istituzionale”, ma lascia molto perplessi che la società sia stata indicata sulla base della fiducia di qualche governante e non su una soluzione ingegneristica, un progetto o un business plan.

Si è poi anche proclamata l’intenzione di procedere alla nazionalizzazione di Aspi (e perché no delle altre concessionarie?). Niente di impossibile, naturalmente. Ma certo molto costoso, a meno che non si pensi a un vero e proprio “esproprio proletario”. Forse non è inutile ricordare che la privatizzazione della sola Autostrade per l’Italia, nel 1999, a seguito di una procedura di gara, fruttò allo stato venditore circa 8,1 miliardi di euro (compresi 1,7 miliardi di euro di debito di cui gli acquirenti si fecero carico), cioè circa 4,5 volte il valore patrimoniale netto della società all’epoca. Un rapporto tra prezzo e patrimonio netto superiore a quelli realizzati nelle privatizzazioni di Enel (1999), Eni (5 tranche tra 1995 e 2001) e Telecom (1997).

Gli annunci governativi – che hanno subito individuato in Aspi i responsabili del disastro – hanno provocato il crollo del titolo azionario di Atlantia, la controllante di Aspi, da 23,54 euro del 14 agosto (dopo il crollo) a 18,30 euro del 16 agosto, dopo gli annunci del governo (il valore del titolo il 13 agosto era di 24,88 euro). Il 31 agosto, il titolo valeva 17,95 euro (-5,59 euro per azione in due settimane, una perdita di circa un quarto del valore); anche le altre concessionarie hanno perso valore. Senza dubbio Aspi e la famiglia Benetton hanno gestito in modo pessimo la comunicazione, dando prova di aridità, ma i Benetton hanno solo il 30 per cento delle azioni della società. Il resto è in mano a migliaia di risparmiatori e investitori, tra cui molti importanti istituti bancari, ai quali naturalmente non può essere addossata alcuna colpa.

Ma ammettiamo che le risorse per nazionalizzare Aspi e le altre concessionarie vengano trovate, senza innescare contenziosi pluridecennali come quello miliardario che riguarda il caso Longarini: rimane da chiedersi se sia la soluzione giusta. Quale evidenza c’è che lo stato sia improvvisamente diventato più bravo ed efficiente dei privati a gestire le autostrade? Proprio i fatti di Genova hanno fatto sorgere molti dubbi che sia in grado anche solo di controllare la corretta esecuzione dei contratti. Perché Anas dovrebbe essere più efficiente di Aspi? E se non di Anas, di quale agenzia pubblica si parla? Ci siamo scandalizzati per trent’anni anni per la Salerno-Reggio Calabria, sia per i costi esorbitanti della ricostruzione sia per l’inefficacia dell’azione di Anas. Abbiamo sotto i nostri occhi lo stato della viabilità “statale”, specie nel Sud-Italia. Senza parlare poi dei crolli che hanno riguardato le infrastrutture stradali a gestione pubblica (Anas): viadotto Verdura (Sicilia, 2013); viadotto Italia (Calabria, 2013); viadotto Scorciavacche (Sicilia, 2014); ponte contrada Petrulla, (statale 626, Sicilia, 2014), crollo ponte A19 (Sicilia, 2015); cavalcavia di Annone (Lombardia 2016). E non dimentichiamo tutte le analisi e le inchieste giornalistiche che hanno messo in luce come le opere pubbliche italiane realizzate dalle amministrazioni pubbliche abbiano un costo inspiegabilmente alto (o forse spiegabilissimamente alto).

Forse, invece di lanciarsi in annunci affrettati, i ministri potrebbero studiarsi bene le carte ed elaborare uno schema di revisione dell’assetto di regolazione delle concessioni stradali che garantisca i benefici della concorrenza per il mercato (cioè l’effettivo svolgimento delle gare al termine delle concessioni) e riduca i margini di profitto dei concessionari laddove ingiustificati. Al tempo stesso, investano risorse e professionalità per rafforzare e migliorare significativamente la vigilanza sull’operato dei concessionari stessi a garanzia dei cittadini.

A oltre venti anni dalla progettazione della Gronda, una città come Genova e una regione come la Liguria non dovevano avere, ancora, solo un unico passaggio tra Est e Ovest. È stato un grande errore della politica. Non è con l’approssimazione e la propaganda che si rispettano le 43 vittime di Genova e si realizzano le altre infrastrutture necessarie, a partire dalla ricostruzione del ponte Morandi.

Angela Bergantino e Andrea Boitani