PERCHE’ IL VASO DA NOTTE SI CHIAMA “ZI PEPP”? STORIA DI SOVRANI E VASI DA NOTTE

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Ferdinando di Borbone non è certo passato alla storia per l’eleganza di comportamento; divenuto re a 8 anni, come istitutore ebbe lo zio Domenico Cattaneo Principe di San Nicandro, che le affettuose cronache dell’epoca descrivono “ignorante, incapace, ipocrita, gretto e vizioso”. In realtà il San Nicandro, essendo un nobile-contadino, si limitò ad educare il nipotino insegnandogli più la pesca e la caccia che l’etichetta di corte (che manco lui conosceva) facendolo, in compenso, divertire come un pazzo.

Fatto sta che la storia è piena di aneddoti più o meno veri riguardanti la presunta poca urbanità del Sovrano.

Ad esempio si dice che, quando assisteva agli spettacoli dal palco reale del San Carlo, si facesse portare enormi piatti di spaghetti al pomodoro che mangiava con le mani cacciandoseli dall’alto nella bocca spalancata, stile Totò in “Miseria e Nobiltà” e che poi pulisse le suddette mani sfregandole sulle giacche dei suoi dignitari. E dicono anche che ricevesse gli ospiti stando seduto sul “càntero” (vaso da notte), da allora a Napoli detto anche Zi’ Peppo e a Roma Zi’ Peppe (dove zi ’sta per “signor”).

La spiegazione di questo soprannome è raccontata da Renato Ribaud nel suo piacevolissimo “Tradizioni Popolari Napoletane” (ed. Gallina). A 17 anni Ferdinando aveva sposato -per ragioni di Stato- Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria. Poco dopo le nozze, andò a trovarli a Napoli l’austero e serissimo fratello di Carolina, Giuseppe, futuro imperatore d’Asburgo e Lorena, il quale portò in dono al cognato – sospetto con una punta di malignità – un lussuoso vaso da notte austriaco così descritto:

Racchiuso in lignee colonne con ante che si aprivano al di sotto di un capitello in stile barocco su cui venivano sistemate in bella mostra delle piante dalle cascanti foglie.

Ferdinando – risospetto per scambio di malignità – si mostrò così entusiasta del dono che in onore del cognato lo battezzò immediatamente “Zi’ Peppo” (diminutivo di Giuseppe) e lo pose trionfalmente nella Sala Ambasciatori del suo appartamento privato.

Ecco una lettera che il Peppo (cognato) scrisse in quei giorni alla madre:

Iersera, dopo cena, Maria Carolina cantava al clavicembalo mentre, in un’altra stanza Ferdinando ci pregò di tenergli compagnia, mentre stava seduto sul vaso. Lo trovai già con i calzoni calati, circondato da cinque o sei valletti, ciambellani ed altri. Facemmo conversazione per più di mezz’ora, e pensavo che egli sarebbe stato ancora lì, quando una terribile puzza ci convinse che era tutto finito. Non mancò di darci tutti i dettagli e voleva perfino mostrarceli; poi, senza tanti complimenti, coi calzoni calati e col puzzolente vaso in mano, corse dietro a due dei suoi gentiluomini, che se la squagliarono. Io me ne andai tranquillamente da mia sorella.”

E lo storico Ignazio Nigrelli raccontò un’altra storia di cànteri, per la quale invece ‘o Re non si divertì affatto.

Nel 1820 fu obbligato, assieme alla consorte, ad un lungo e faticoso viaggio in carrozza nell’entroterra siciliano, territorio pieno di repubblicani che lo odiavano.

Arrivato a Caltagirone, le Autorità consegnarono pubblicamente e solennemente alla coppia reale un dono di artigianato locale: due enormi e vistosissimi zi’ peppi.

E Ferdinando -dopo aver ringraziato a denti strettissimi- in privato s’imbufalì scrivendo “Questi perfidi repubblicani due càntari m’hanno donato!” – avendo colto perfettamente il sottile e trasversale messaggio d’invito: “ ‘O Re, ma va’ a…” (PlacidaSignora)