L’ULTIMO CUSTODE DELL’ANTICA TRADIZIONE DEI PAGLIAI DEL GARGANO

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Lui è Nazario Russo, classe 1941, una vita da muratore a San Nicandro Garganico e i terreni “allu Sckapparë” ereditati da suo nonno materno, pescatore del lago di Lesina.

Il suo cognome, invece, racconta dell’altro suo nonno, che “scendendo” da San Giovanni Rotondo con il mulo per vendere le patate (i famosi “sangiuvannarë magna patanë”) si innamorò di una giovane sannicandrese.

Perchè vi racconto tutto questo?

Perchè Nazario è l’ultimo custode dell’antica tradizione della costruzione dei pagliai, non quelli omonimi e più noti, in pietra a secco che sul Gargano chiamiamo “pagghjarë/pagghjerë”, ma quelli in paglia secca, praticamente capanne usate come abitazioni dai pescatori delle lagune di Varano, Lesina e paludi sipontine.

Insomma, una parte sottaciuta (perchè?) di quell’architettura rurale spontanea che sul Gargano si è espressa per secoli (e/o millenni) tramite case grotte, canalizzazioni nella roccia, terrazzamenti, trappeti ipogei, mulini ad acqua, muretti a secco, pagliai, jazzi, mandre, masserie e trabucchi.

Di pagliai ne avevo visti solo nelle vecchie foto in bianco e nero, dunque quando ho saputo di questo vero e proprio “fossile culturale” ho cercato subito di saperne di più e, grazie all’amico Matteo Vocale, sono riuscito a conoscere di persona Nazario che, figuratevi, ho letteralmente tempestato di domande.

Nazario e la sua famiglia mi hanno accolto calorosamente, come è prassi delle persone genuine, raccontandomi della storia di questo pagliaio, costruito negli anni ’60 e unico reduce dei tanti vicini esistenti un tempo, ricovero dei pescatori lontani dal paese che qui vivevano con le proprie famiglie per alcuni mesi dell’anno. Con suo fratello Angelo negli anni hanno lavorato per conservare questa memoria del territorio, anche contro qualche scellerato provvedimento del comune di Lesina che ne voleva l’abbattimento per abusivismo.

Nazario ci parla della tecnica di costruzione: le misure potevano essere diverse, a seconda della grandezza della famiglia; si partiva da un’altezza 3mt, larghezza 3m e lunghezza di 4 metri; il tetto era sempre a due falde (mentre a Lesina i pagliai erano circolari).

In quelli più grandi d’inverno si accendeva il fuoco al centro e il fumo penetrava fuori attraverso la paglia (si stava con la testa china per evitare rossori agli occhi a causa del fumo che circolava dentro). L’estate il fuoco si accendeva fuori per cucinare ma l’inconveniente delle zanzare faceva ammalare la maggior parte dei pescatori di malaria, condizioni difficili fortunatamente dimenticate dopo le bonifiche del dopo guerra (come non ricordare le crude scene del film di Elio Piccon “L’Antimiracolo”, girato nel lago di Lesina).
Testimonianze famigliari riportano a mio nonno, pescatore di Varano, in grado di costruire i pagliai.
A Capojale, addirittura, c’erano i “pagliai collettivi”, che ospitavano più pescatori contemporaneamente, gli stessi impegnati nella pesca “collettiva”; dormivano con il fuoco acceso al centro, sdraiati sulla paglia e con delle coperte.

Domenico Sergio Antonacci