LA GROTTA DELL’ANGELO

0
706

Matteo ancora, fresca incarnazione dello spirito dei luoghi, guida l’annosa cordata di visitatori sù per il bosco fino alla Grotta dell’Angelo. Franco chiede di fare il punto. Dunque: la Torre Mileto, Devia e la Grotta sono allineati lungo una direttrice nord-sud: invece le tre Grotte garganiche di San Michele – Devia, Cagnano Varano e Monte S. Angelo – sono in linea da nord-ovest a sud-est.

Alle suggestive proiezioni cosmiche mancano purtroppo le Tremiti, troppo spostate ad ovest per partecipare a questa configurazione mistica. Pazienza. Da soli non arriveremmo mai all’imboccatura della grotta dell’Angelo. Ma eccola qui. Avvicinandoci tra gli alberi del bosco il primo sguardo viene attratto, in alto rispetto all’ingresso, da una cavità di aspetto inequivocabile: un organo femminile. Guardando meglio ce ne sono altre due intorno, e forse l’imboccatura stessa della grotta, prima di essere addomesticata, aveva questo disegno. Istintivamente tornano in mente situazioni simili. La grande fenditura al centro delle tombe dei re achemenidi, a Naqsh-e Rustam. O anche, più vicina a noi, la spaccatura del monte di Sulmona che fa da asse al tempio di Ercole Curino, sacro alla transumanza.

L’ingresso ricorda una gola umana. Avanzando, più che altro sembra di essere Pinocchio nel ventre della balena. Dal Paleolitico al Medioevo l’uomo ha lasciato tracce sicure per gli archeologhi, ma ha pure configurato questo ambiente in modo rassicurante, per esperienze comunitarie che si immaginano serene. L’opposto, per dire, della Grotta di Cagnano Varano, che sembra plasmata da un turbine violento e in qualche misura malevolo, come se Michele si fosse dovuto conquistare lo spazio in lotta contro gli spiriti d’inferno; e per questo vi lascia qua un’ala, là un’orma. Ed è la sua prima abitazione sul Gargano.

Avanziamo nell’umidità con qualche domanda in mente. Che cosa attira noi uomini antichi nelle grotte? A parte il naturale riparo, sembrano risucchiati perso l’interno buio e inabitabile. E che cosa scatta in noi quando vi avvertiamo la presenza di acqua, sotto forma di pozza o di sgocciolio o di fiume o di fonte? E le emozioni che proviamo nel procedere nella caverna: il repentino silenzio, l’ascolto interno delle proprie pulsazioni, l’umidità; la protezione. Più sottile di tutto: la sensazione di procedere verso un punto finale, cioè iniziale. Là dove la generazione avviene di nuovo. E l’acqua? Se la grotta è un utero di Gaia, è naturale che vi sia l’umidità. Ne avrebbe convenuto anche Talete: l’acqua principio di tutte le cose è giusto che sia là dove la vita prende l’avvio.

A un certo punto si profila una specie di velopendulo, e poi tre diramazioni. Ma a un muretto di sassi Michele ci blocca: non expedit inoltrarsi. Dal soffitto pendono finissime stalattiti umide, come fanoni di una piccola balena. Ci sono dei graffiti anche, delle tracce rosse, delle pietre verdi di lichene. Quale divinità verrà incontro a noi pellegrini di caverne senza inizio? Ad Apuleio è stata fatta la rivelazione: “Lucio, sono qua, richiamata dalle tue preghiere. Sono la Natura madre di tutte le cose, signora di tutti gli elementi, principio e generazione dei secoli, la più grande dei Numi, la regina dei Mani, la prima fra i Celesti, forma tipica degli Dei e delle Dee, che governano al mio cenno le luminose vette del cielo, le salutari brezze marine, i piangenti silenzi degli inferi.

Il mio nome è oggetto di culto in tutto il mondo, seppure sotto diverse forme, con vario rito e con diverse denominazioni. I Frigi primi abitatori della terra mi chiamano la Madre degli Dei di Pessinunte (cioè Cibele); gli abitanti indigeni dell’Attica, Minerva Cecropia. Il mio nome è Afrodite di Pafo presso gli abitanti dell’isola di Cipro; Diana Dittina presso i Cretesi, noti arcieri. Proserpina mi chiamano i Siciliani in tre lingue. Vetusta Cerere fra gli Eleusini; altri mi chiamano Giunone, altri Bellona; alcuni Ecate e altri Ramnusia. Ma solamente coloro che sono illuminati dai primi raggi del sole nascente, gli uni e gli altri Etiopi, e gli Egiziani ammirevoli per la loro dottrina, mi onorano con un culto di adeguate cerimonie e mi invocano con il mio vero nome: Iside Regina”. Iside che nelle statuette ellenistiche tiene in braccio il figlio. Horus. Guardando verso l’esterno non si vede Santa Maria ma, in lontananza, il mare.

(tratto da “Città dimenticate” – Terre Foggiane – E. Gema)