Dopo il fallimento della riforma sulla cittadinanza per minori stranieri (impropriamente denominata ius soli), sarebbe auspicabile che nel prossimo futuro le forze politiche riuscissero ad affrontare un ragionamento complessivo sull’immigrazione, evitando di ripetere gli errori del passato. La discussione dovrebbe perciò comprendere temi molto diversi fra loro, ma interconnessi, quali le politiche per l’asilo, la programmazione degli ingressi per lavoro, l’emersione degli irregolari e le politiche per l’integrazione. Infatti, la politica complessiva deve tenere conto di una sempre maggiore articolazione del fenomeno.
A partire dal 1998, quando è stato introdotto, il “decreto flussi”, è stato utilizzato per pianificare gli ingressi di immigrati per motivi di lavoro. Esclusi i lavoratori stagionali, in quasi vent’anni sono entrati in questo modo circa 1,5 milioni di lavoratori stranieri a tempo indeterminato. Va poi aggiunto un altro milione regolarizzato attraverso le più sbrigative “sanatorie”: quella del 2003, ad esempio, rimane la più grande di sempre in Europa, con circa 650 mila lavoratori regolarizzati in pochi mesi. Di fatto, il meccanismo dei decreti flussi ha rappresentato più uno strumento di regolarizzazione a posteriori che di programmazione.
Dal 2008, anno di inizio della crisi, gli ingressi programmati sono drasticamente diminuiti, riducendosi a poche migliaia, cui si aggiungono i lavoratori stagionali. Anche le quote del 2018, stabilite dai ministeri dell’Interno e del Lavoro lo scorso 17 gennaio, limitano i “nuovi ingressi” a conversioni di permessi di soggiorno o a specifiche categorie (come i lavoratori di origine italiana o i lavoratori autonomi).
Negli ultimi anni, parallelamente alla riduzione degli ingressi per lavoro (e forse anche a causa di essa), abbiamo assistito al fenomeno degli sbarchi e alla crescita delle richieste d’asilo, passate da 40 mila nel 2011 a 84 mila nel 2015 e 123 mila nel 2016.
Le indicazioni date dall’Unione europea a partire dal 1999 (Consiglio europeo di Tampere, Finlandia) raccomandano che i flussi di ingresso siano accompagnati da adeguate politiche di integrazione sociale, per favorire percorsi guidati verso la cittadinanza. In Italia, invece, non è successo, sia per mancanza di risorse sia per una gestione troppo dispersiva di quelle a disposizione.
Complessivamente, i comuni italiani spendono ogni anno meno di 200 milioni di euro in politiche di integrazione, cui si possono sommare circa 45 milioni di euro l’anno del Fami 2014-2020 (Fondo europeo migrazione e integrazione). Anche considerando i singoli progetti in ambito sanitario e scolastico, l’Italia non arriva a spendere 300 milioni di euro annui per le politiche rivolte specificamente ai cittadini stranieri per la loro integrazione (da non confondere con le politiche generali di welfare).
Dal punto di vista della gestione delle risorse, sembra poco consigliabile disperderle in piccoli progetti senza una strategia organica a monte. Pur valorizzando le specificità e i fabbisogni locali, occorrerebbe concentrarsi su grandi priorità comuni: ad esempio i corsi di lingua italiana (come concordato tra ministero degli Interni e regioni fin dal 2007) e i mediatori culturali, che del resto sono presenti in tutti i paesi di forte immigrazione. Ma anche su attività culturali nelle scuole, per la prevenzione del razzismo e delle discriminazioni. In alcuni paesi queste attività sono addirittura bilaterali, proponendo anche agli autoctoni programmi culturali legati agli sviluppi di una società multiculturale.
In questo senso, va riconosciuto che il Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale, presentato lo scorso settembre dal ministero dell’Interno, rappresenta una novità positiva, sottolineando diritti (uguaglianza, pari dignità, libertà di religione, accesso all’istruzione e alla formazione, inclusione nella società) e doveri (imparare la lingua, condividere i valori della Costituzione italiana, rispettare le leggi, partecipare alla vita economica, sociale e culturale del territorio) dei beneficiari di asilo. Sebbene i rifugiati rappresentino oggi solo una piccola parte degli immigrati in Italia, peraltro piuttosto omogenea per provenienza, genere e fascia d’età, i “motivi umanitari” rappresentano ormai la quota principale tra i nuovi arrivi, avendo superato negli ultimi due anni anche i “ricongiungimenti familiari”.
Numerose sentenze della magistratura, anche ai più alti livelli, si sono incaricate di dimostrare in questi anni che l’idea di limitare i diritti dei cittadini stranieri nell’accesso ai servizi di welfare, al di là della propaganda politica, risulta impraticabile.
Sarebbe opportuno, quindi, che tutte le forze politiche ne prendessero atto, cercando di evitare di ripetere gli errori del passato.
Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini, Chiara Tronchin