IL MONDO NUOVO DELLA POLITICA PUNTA SUI VALORI

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Un'immagine, di oggi 7 settembre 2011, mostra i banchi vuoti dell'Aula del Senato, durante la discussione generale sulla manovra, sulla quale in serata si votera' la fiducia. ANSA / GIUSEPPE LAMI

Quando si pensa a una competizione elettorale viene spesso naturale pensare a uno scontro politico sui programmi, sulle proposte, sulle politiche. Ovvero su ciò su cui gli elettori ragionevolmente si dividono e su cui i partiti si contrappongono: quanta redistribuzione del reddito? Quale politica sulle migrazioni? Quali diritti per le coppie omosessuali? Quale atteggiamento tenere verso Putin? E così via. Tuttavia, da qualche tempo la letteratura politologica dà un crescente riconoscimento al ruolo giocato dai valori per spiegare le fortune elettorali dei vari contendenti: la differenza fondamentale rispetto alle politiche è che se su queste ultime esiste una data distribuzione di preferenze tra gli elettori (c’è qualcuno, ad esempio, che vuole più e qualcuno che vuole meno su ciascuna delle questioni discusse sopra), sulle questioni di valori tutti (o quasi tutti) presentano la medesima posizione. Chi vorrebbe, dopotutto, un leader o un partito corrotto? O inaffidabile, indegno di fiducia o peggio incompetente (magari a fronteggiare l’incombente minaccia del terrorismo)? Senza poi trascurare l’accusa sempre presente di “appartenere alla casta” e al “vecchio modo” di fare politica (qualunque cosa questo significhi). Nessuno (o quasi). Ma quando in un confronto politico conviene investire di più sui valori invece che sui programmi? Una varietà di ricerche su una pluralità di fonti assai distinte tra di loro (dai manifesti elettorali succedutosi dal dopoguerra ai giorni nostri nelle principali democrazie occidentali, ai discorsi parlamentari in Italia da Alcide De Gasperi e Matteo Renzi, per finire a Twitter nelle ultime elezioni europee) converge nel mostrare che quanto più i partiti sono ideologicamente vicini tra di loro, maggiore sarà l’incentivo a farlo, ovvero a parlare e a enfatizzare in modo più marcato proprio i valori. Il che dopotutto non è così sorprendente. Prendiamo il caso della corsa a sindaco di Milano prossima ventura: le differenze programmatiche tra Giuseppe Sala e Stefano Parisi (ma la cosa si potrebbe facilmente estendere anche alle ricette economiche, al di là del diverso linguaggio usato, dell’attuale governo e dei suoi predecessori) sembrano essere assai contenute. In queste condizioni, criticare il programma altrui significa implicitamente anche attaccare il proprio. Analogamente, sottolineare i meriti della propria piattaforma politica implica indirettamente tessere le lodi di quella degli altri. Perché allora correre il rischio di farlo? Quanto più le posizioni programmatiche sono (percepite) a torto o a ragione come simili, tanto più i partiti devono trovare una strada per differenziarsi di fronte agli elettori che non passi necessariamente (o principalmente) attraverso le policy. Le questioni di valore permettono esattamente di fare questo – sia in positivo, ad esempio “il partito degli onesti” per citare uno slogan che va (o andava?) di moda, sia in negativo, “il partito dei corrotti” -, accrescendo di conseguenza di molto il loro impatto elettorale.

D’altra parte, in questi ultimi decenni abbiamo assistito a una sostanziale convergenza programmatica dei partiti su molte tematiche, un po’ voluta e scelta, un po’ subita controvoglia per l’effetto di vari elementi esterni difficilmente controllabili – dalla caduta del muro di Berlino ai limiti imposti dalla moneta unica, vincoli di bilancio e “troika” inclusi. Per fare un esempio: il livello medio di polarizzazione ideologica nelle democrazie occidentali lungo una generale dimensione sinistra-destra ha registrato una costante e marcata contrazione nel corso del tempo (almeno stante all’analisi dei programmi elettorali dei partiti), e questo nonostante l’emergere di nuovi temi politici divisivi come l’immigrazione o l’atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea.

Tutto ciò ha liberato un importante spazio elettorale per la competizione sui valori che prima non c’era, soprattutto per quei partiti in grado di fare propria la bandiera dei valori meglio di altri. I partiti populisti, che hanno spesso un bagaglio ideologico per storia o cultura meno ingombrante rispetto ai loro colleghi, sono particolarmente competitivi a questo riguardo. E i loro successi elettorali improvvisi e dirompenti negli ultimi anni, sia a sinistra (Podemos e i motti degli indignados) sia a destra (Donald Trump e quel “make America great again”) sia da qualche parte nel mezzo (Beppe Grillo e i pentastellati), lo dimostrano chiaramente. E questo indipendentemente (o al di là) dalla crescente mediatizzazione della politica, sottolineata da più parti come la vera novità, e alla sua conseguente personalizzazione. Tutto questo genera una sfida epocale per le democrazie contemporanee, che è ad ogni modo ineludibile in una geografia programmaticamente (sempre) più moderata: si pensi ad esempio al moltiplicarsi un po’ ovunque in Europa della formula delle grandi coalizioni, che da emergenza nei decenni passati, diventa vera e propria prassi di governo del tutto coerente con la nuova convergenza programmatica. Con il paradosso, però, che forse si stava (complessivamente) meglio quando si stava (ideologicamente) peggio. Ovvero, in un mondo in cui la storia preconizzata da Francis Fukuyama non era ancora finita, e in cui una forte polarizzazione sui programmi teneva sostanzialmente fuori dall’arena elettorale i valori in quanto relativamente meno attraenti in termini di voti. Perché dopotutto, una volta che i valori diventano la principale merce di scambio nella competizione politica, il rischio è che sfuggano di mano, fino a delegittimare l’intero sistema politico a furia di attacchi personali e accuse reciproche di incompetenza, disonestà o furbizia.

Luigi Curini

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