COS’E’ DIVENTATO IN CONCRETO IL REDDITO DI CITTADINANZA

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Il 17 gennaio 2019, proprio un anno fa, il governo allora in carica presentò pubblicamente il reddito di cittadinanza (Rdc). Per promuoverlo fu scelto uno slogan, che campeggiava su tutti i documenti e i siti ufficiali: “Reddito di cittadinanza, una rivoluzione per il mondo del lavoro”. Analogamente, le slide distribuite in quell’occasione lo definivano “una misura di reinserimento nel mondo del lavoro”.

Gli esempi potrebbero continuare, ma il contenuto era lo stesso. È stata realizzata una martellante campagna mediatica fondata principalmente su un messaggio: il Rdc come misura concentrata sugli interventi d’inclusione lavorativa, che permetterà di trovare un’occupazione a un gran numero di poveri. Tutto il resto è stato relegato sullo sfondo, si tratti dell’importanza di un aiuto monetario per gli indigenti o della possibilità assicurata loro di ricevere anche risposte non legate al lavoro.

Cos’è in realtà. La comunicazione e la realtà, però, divergono. Infatti, solo una parte minoritaria degli individui che percepiscono il Rdc – il 35 per cento – viene inviata ai centri per l’impiego, titolari dell’inserimento lavorativo. Invece, il 41 per cento è indirizzato ai servizi sociali dei comuni e il 26 per cento riceve unicamente il contributo monetario. Ma non si è sbagliato nell’attuazione della normativa, è stato realizzato ciò che questa effettivamente prevede.

Per capire quanto avvenuto bisogna tornare al reddito di cittadinanza proposto per anni dal Movimento 5 Stelle. La sua logica era chiara: la povertà è un problema legato essenzialmente alla mancanza di lavoro e la misura la può contrastare efficacemente, poiché è in grado trovare un’occupazione per tanti indigenti. Di conseguenza, si prevedeva un positivo rafforzamento dei centri per l’impiego ma lo si traduceva nella quasi esclusiva presenza di percorsi d’inclusione lavorativa, relegando ai margini quelli sociali di responsabilità dei comuni. Si dimenticava così che la povertà tocca, invece, molteplici aspetti della condizione umana (economici, familiari, lavorativi, di salute, psicologici, abitativi, di istruzione, cura di bambini e anziani e altri) e che solo i servizi sociali comunali hanno le competenze per affrontarne la multidimensionalità.

Sul riconoscimento di tale caratteristica era basato invece il Rei, reddito di inclusione, introdotto dal centro-sinistra. Di conseguenza, la misura assegnava una posizione importante ai comuni, al fianco dei centri per l’impiego, che, però – in questo caso – non erano stati dotati del finanziamento necessario.

Durante l’elaborazione della norma sul Rdc sono avvenuti due fatti positivi, rari nelle politiche pubbliche. Primo, si è saputo cambiare idea, poiché si è riconosciuta la multidimensionalità della povertà e, dunque, si è assegnato un ruolo paritario ai percorsi d’inclusione lavorativa e a quelli d’inclusione sociale, prevedendo una posizione di rilievo anche per i comuni. Secondo, si è resistito all’abituale tentazione di azzerare quanto fatto dai governi precedenti, confermando l’organizzazione dei percorsi d’inclusione sociale del Rei ed evitando così di disperdere l’esperienza pregressa. Contemporaneamente, è stato previsto un ingente stanziamento per lo sviluppo dei centri per l’impiego.

La misura è cambiata, la comunicazione no. Queste scelte sono risultate molto utili ai poveri, ma la comunicazione del Movimento le ha ignorate. Presso l’opinione pubblica, infatti, non è stato promosso il Rdc effettivamente approvato bensì la storica proposta del M5s. E, coerentemente, si è mantenuta la retorica che l’aveva sempre accompagnata, fondata su eccessive aspettative d’inserimento occupazionale. Tale retorica trascura che numerosi poveri non sono in condizioni di lavorare oppure non lo sono immediatamente e che comunque – anche per chi lo è – le offerte d’impiego debbono effettivamente esistere. Senza adeguate politiche finalizzate alla crescita dell’occupazione, quest’ultimo è un presupposto assai fragile.

Si possono ipotizzare diverse ragioni all’origine della peculiare campagna comunicativa del M5s. Innanzitutto, trovare un lavoro per i poveri era sempre stato l’obiettivo fondamentale – e identitario – dei Cinquestelle e rinunciarvi sarebbe stato complesso. Inoltre, per il Movimento era allora vitale segnare una profonda cesura con la stagione politica precedente, della quale il Rei era figlio. E la maggiore attenzione all’inserimento lavorativo rappresentava la principale novità rispetto al disegno di quella misura. Infine, l’accentuazione lavoristica rendeva più accettabile il Rdc all’alleato di governo di quel momento, la Lega, che lo aveva sempre criticato ritenendolo eccessivamente assistenzialista.

Un boomerang per i poveri? Nelle ultime settimane, i leader del M5s hanno cambiato registro cominciando a difendere il Rdc per quelli che sono davvero i suoi grandi pregi: un contributo economico che assicura a oltre 2 milioni di persone una vita decente e un insieme di servizi, sociali e per l’occupazione, che possono aiutarle – nell’ambito di stringenti vincoli di realtà – a migliorare la propria esistenza. L’enfasi lavoristica è scomparsa: simbolicamente, lo slogan “una rivoluzione per il mondo del lavoro” è stato tolto dal sito del governo e non compare più in alcuna sede. In effetti, i risultati in termini d’inserimento occupazionale sono stati sinora marginali ed è ormai condiviso che – secondo le parole del presidente dell’Inps – “il reddito di cittadinanza non crea lavoro in senso letterale, aiuta l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Per creare lavoro servono investimenti”.

Un anno d’incessante martellamento mediatico, tuttavia, non si può cancellare. Il Rdc è stato promosso attraverso un doppio movimento: promettere più di quello che può ottenere (lavoro) e non valorizzare ciò che offre (sostegno monetario e mix di servizi). Pertanto, il mancato raggiungimento degli obiettivi occupazionali ne decreta, agli occhi di molti, il fallimento. Numerose sono le critiche formulate alla misura nel circuito mediatico così come in quello politico. E nell’opinione pubblica si diffonde la percezione del suo insuccesso.

Paradossalmente, a farne le spese rischiano di essere proprio i poveri. Oggi, in Italia, le politiche contro la povertà coincidono con il Rdc. Pertanto, se il reddito non serve, sono le stesse politiche contro la povertà a essere considerate inutili: da questa consequenzialità non si sfugge. Il timore, allora, è che si allarghi la schiera dei detrattori di un welfare per i più svantaggiati in quanto tale, con conseguenze che solo il tempo saprà mostrare. Il reddito di cittadinanza ha vari limiti, ma l’Italia ha bisogno di efficaci politiche contro la povertà. A fallire non è stata la misura, è stata la narrazione che ci ha accompagnato lungo 12 mesi tempestosi. (lavoce)

Cristiano Gori