La tragedia del ponte Morandi ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica, italiana ed estera, sulle disfunzioni del nostro sistema di concessioni autostradali, che da anni – inutilmente – pochi economisti hanno continuato a denunciare. Mentre le tariffe aumentano con regolarità, la maggior parte dei pedaggi finisce in imposte e profitti dei concessionari. Nel 2017, su 8 miliardi di pedaggi pagati 2 sono andati in Iva e canoni allo stato e 6 alle concessionarie, che hanno però fatto investimenti per meno di un miliardo. Autostrade per l’Italia (Aspi) ha avuto un margine operativo di 2.450 milioni, ma ha investito nella rete soli 517 milioni.
In questi giorni si è diffusa una critica radicale alla funzione stessa e all’utilità sociale delle concessionarie. L’istituto della concessione si giustifica in teoria perché opere pubbliche possano essere finanziate con capitali privati e poi devolute allo stato a fine concessione, senza oneri per il bilancio. Ma questo non è mai avvenuto in Italia.
Fin dall’inizio gli azionisti delle concessionarie – l’Iri, i Gavio e gli enti azionisti di tutte le altre autostrade – non hanno versato capitali – se non irrisori -, tutto è stato finanziato a debito e quasi sempre con garanzia dello stato. I capitali iscritti a bilancio sono stati centuplicati con le rivalutazioni monetarie e poi, una volta rimborsati i debiti attorno alla fine degli anni Novanta, invece di devolvere le opere allo stato come previsto dai contratti di concessione, per agevolare la privatizzazione delle Autostrade, i pedaggi sono stati mantenuti e le concessioni prorogate più volte, dando origine a un flusso di profitti elevatissimo e ingiustificato. Si può dire che la rete autostradale sia stata sostanzialmente regalata ai concessionari dallo stato (inteso come rappresentante della collettività che paga i pedaggi). Ciò è potuto avvenire perché non esiste nessun altro settore dove un governo o un ministro possa fare regali tanto imponenti a società, pubbliche o private, mediante la proroga di concessioni e la regolazione delle tariffe, senza che gli utenti ne percepiscano nemmeno i costi addizionali. E nessuno dei ministri che si sono succeduti è stato un eroe, anzi.
L’unico incasso è stato quello ottenuto dall’Iri per la privatizzazione della società Autostrade, poco più di 6 miliardi nel 1999. Ma appena tre anni dopo, accollando alla società un debito di analogo importo (da rimborsare con i pedaggi), gli azionisti della Schamaventotto (controllata dai Benetton) recuperarono quanto pagato all’Iri, restando però col controllo di una concessionaria che aveva ancora 35 anni di concessione e profitti crescenti di 700-900 milioni l’anno.
Un enorme profitto per i privati e una disfatta finanziaria dello stato che suscita vergogna. L’opinione pubblica ha iniziato però a capire e l’onda di indignazione suscitata dal crollo del ponte può giustificare la decisione del governo di rimettere in discussione tutto il sistema, al di là delle responsabilità del caso.
Revocare o modificare concessioni, anche se pesantemente squilibrate a vantaggio del concessionario, apre scenari di controversie legali su cui non commento. Potrebbe anche rivelarsi conveniente per lo stato, ma al di là dei calcoli finanziari si profila ora una opposizione ideologica da parte di quanti si dichiarano contrari alla “nazionalizzazione” delle autostrade. In realtà, la proprietà delle autostrade è sempre restata in capo allo stato e per capire in cosa consisterebbe la “nazionalizzazione” occorre riflettere su quali siano le funzioni svolte dai concessionari e che passerebbero allo stato. Il mestiere del concessionario è molto semplice: non deve cercarsi clienti, non è esposto al rischio di cambiamenti di gusti o di tecnologie, non ha da temere concorrenti.
Un concessionario fa tre cose: manutenzione, investimenti e riscossione di pedaggi. Se lo stato decidesse di riprendersi la gestione delle autostrade (svolgendo il servizio “in house”, magari tramite un apposito ente pubblico) potrebbe farlo senza assumere alcun nuovo dipendente pubblico: potrebbe affidare con gare separate, all’Anas o a società private, l’esazione dei pedaggi e la manutenzione, magari anche su base regionale, contenendo i costi grazie alla concorrenza (unbundling). L’Anas gestisce già la manutenzione di 26 mila chilometri di strade statali: non si vedono rischi di “nazionalizzazioni” se dovesse farsi carico della manutenzione di altri 3 mila chilometri.
Anche gli investimenti potrebbero essere appaltati con gare e con costi inferiori a quelli praticati dalle società di costruzione controllate dalle concessionarie. Il gettito dei pedaggi, che sono divenuti in sostanza delle imposte, affluirebbe nelle casse dello stato e, ai livelli di tariffe attuali, coprirebbe ampiamente tutti i costi, lasciando margini per investimenti ben maggiori di quelli fatti dalle concessionarie.
Certo, ciò richiederebbe un’attività di supervisione alle manutenzioni e agli investimenti, da parte degli organi statali preposti, assai più pervasiva di quella effettuata oggi. Ma è la stessa tragedia del ponte crollato che ha messo in luce i difetti di un sistema dove lo stato ha progressivamente affidato ai privati le scelte d’investimento e di manutenzione, abdicando di fatto al ruolo di supervisione che dovrebbe essergli proprio e che dovrà comunque recuperare.
Non si avvertirebbe certo il venir meno dell’apporto di capitali privati: nessuno dei grandi concessionari ha mai effettuato significativi aumenti di capitale a pagamento. In questo settore tutto è finanziato a debito, e così continuerebbe anche dopo la fine delle concessioni. Potrebbero invece diminuire, e di molto, sia i costi amministrativi (eliminando decine di società e consigli di amministrazione) sia, soprattutto, gli oneri finanziari. Oggi il ministero riconosce ai concessionari un tasso di rendimento sugli investimenti del 7,96 per cento (al netto delle imposte!) mentre un ente pubblico potrebbe indebitarsi a un costo attorno al 3-4 per cento sulla garanzia del flusso dei pedaggi (senza gara dello stato). Una differenza enorme.
Prendiamo ad esempio l’ultima delle tante proroghe concesse dal ministro Delrio, quella alla Autostrade per l’Italia per finanziare il cosiddetto “Passante” di Genova. Un progetto da 4,3 miliardi che Aspi si impegnava a costruire e a finanziare assieme ad altri investimenti per un totale di 7,8 miliardi. In cambio il governo ha concesso una proroga della concessione di quattro anni (dal 2038 al 2042), un indennizzo di subentro di 5,6 miliardi a fine concessione e una revisione della regola tariffaria per cui i pedaggi aumenteranno con l’inflazione al 100 per cento (contro solo il 70 per cento di oggi) più lo 0,5 per cento l’anno.
Tutto ciò costerà, nel complesso, maggiori pedaggi per circa 24 miliardi: tre volte l’importo degli investimenti previsti. Avviene proprio perché viene riconosciuto alla società un rendimento sui capitali investiti del 7,96 per cento, anche se le obbligazioni decennali di Atlantia fruttano un tasso lordo del 3 per cento. Se quegli investimenti venissero realizzati da un ente pubblico in grado di indebitarsi attorno al 3 per cento, il costo in maggiori pedaggi potrebbe essere inferiore a 10 miliardi.
In generale, il motivo principale dei continui aumenti di tariffa va ricercato nel fatto che gli investimenti proposti dalle concessionarie hanno una redditività inferiore al tasso di remunerazione del capitale riconosciuto loro dal ministero e pertanto devono essere remunerati in tariffa. È probabile che la redditività attesa degli investimenti venga sottovalutata dalle concessionarie per ottenere maggiori incrementi tariffari, ma è comunque difficile trovare investimenti che rendano circa l’8 per cento (dopo le imposte). Se vogliamo che i pedaggi cessino di crescere, e magari diminuiscano, occorre ridurre drasticamente il loro costo finanziario, e questo sarà possibile solo se a finanziarli sarà un ente pubblico senza scopo di lucro.