Continua una nuova serie di articoli che parlano sui modi di dire e degli aforismi locali per capire e analizzare la quo ed offrire una visione chiara, lucida e trasparente della condizione umana in cui ognuno di noi può legittimamente dedurre o trarre da ciascuno di essi le considerazioni che gli sembrano più ovvie in riferimento ai tempi, alle usanze, ai problemi, ai comportamenti e agli altalenanti rivolgimenti che la società sta attualmente vivendo. Gli articoli sono tratti dal libro “Voci di Capitanata” di Donato D’Amico.
Il detto di oggi è: “Quann u ciucc’ ragghja, vò la pagghja””, cioè “Quando l’asino raglia, vuole la paglia”.
La vita sospinge, incalza, irrompe ogni giorno di più. Le attese e le richieste della società diventano sempre più urgenti. Tutti sentono la necessità di ottenere quanto più possono. Il tutto, indipendentemente dalla loro situazione socio-economica o dal ruolo che ciascuno ricopre o dal contributo che ognuno riesce a dare alla comunità. È una sorta di rincorsa senza espiri, è un affanno continuo e senza distinzione di personaggi, ed l‘arrivismo imperante; a volte sono illegalità e l‘illecito che sovrastano le legittime aspirazioni, i sentimenti elevati, la nobiltà del pensiero onesto e dignitoso.
E in questo coro a più voci non manca neppure il “raglio” dell‘asino, ossia la voce risentita, sdegnosa e sconsiderata dell‘uomo sciocco, presuntuoso e ignorante, che continuerai a sbraitare inutilmente; tanto, nessuno lo ascolta, perché egli non conta meno di nulla, zero assoluto. Infatti, la tesi riportata sottende che al “raglio” fastidioso dell‘asino (che ha fame) fa riscontro il richiamo risentito ed inascoltato dell‘uomo sciocco e ignorante, ovvero di colui che non conta niente e si dispera per il suo triste destino e per l‘amara verità che la vita gli ha riservato. Possiamo dire che come al somaro che taglia tocca in sorte una fascina di paglia (dunque, poco e nulla), parimenti la sorte di coloro che non contano un bel niente, come lo sciocco e l‘ignorante, è già segnata nel loro destino di poveri diseredati, nell‘essere esse persone senza giudizio, nella sicumera che spesso si trascinano dietro per nascondere la l’oro ignoranza. Triste destino è il loro, perché la loro voce resterà per sempre inascoltata. Dunque, nessuna considerazione per i poveri “disgraziati” che reclamano a buon diritto la loro parte sulla faccia della terra.
E certamente quest‘amara verità che noi possiamo desumer dal motto popolare, ma non è ovviamente questa la considerazione che dei poveri e degli sfortunati avevano i nostri antenati. Vogliamo dire che il proverbio è solo una presa d‘atto, il sintetico “reportage” di una situazione che i nostri avi assolutamente non condividevano, ma che forse molti di essi subivano perché erano tanti coloro che gridavano invano, che si disperavano senza ottenere mai nulla, nonostante le ristrettezze economiche e le urgenti necessità. L‘uomo “somaro” ossia colui che non contava, era destinato a restare povero, ignorante e trascurato.
Non c‘era verso: intellettualmente ipodotato, economicamente diseredati, sventurato socialmente, questi veniva ignobilmente emarginato è dimenticato. E le sue imprecazioni e le sue denunce non turbavano proprio nessuno, perché, volente o nolente, si sarebbe dovuto accontentare del solito tozzo di pane e nient‘altro. Egli non era nessuno, perché era una persona che non contava, cioè, un essere che non aveva creduto ed alcuna a autorità. Parimenti, il “raglio” dell‘asino non preoccupava più di tanto perché, perchè trattandosi di un animale da tiro o da soma, alquanto testardo e sciocco, di solito gli si tappava la bocca con un più di paglia, spesso umida e stantia.
Qualcuno, riferendosi allo svolgimento e alla evoluzione della vita sociale, ha scritto che “mondo è stato e mondo sarà “, volendo con cioè affermare che gli squilibri, i privilegi e l‘indifferenza hanno sempre connotato i rapporti sociali e quelli con la pubblica amministrazione. In proposito, pur riconoscendo in parte la validità dell‘espressione, noi osiamo sperare in una riforma del “welfare” (benessere) che tenga conto equamente di tutti i cittadini, ivi compreso l‘eterno escluso, il negletto per eccellenza, colui che continua a lamentarsi e dolersi per le ingiustizie cui ancora oggi soggiace, nonostante la conclamata democrazia compiuta.