Continua una nuova serie di articoli che parlano sui modi di dire e degli aforismi locali per capire e analizzare la quo ed offrire una visione chiara, lucida e trasparente della condizione umana in cui ognuno di noi può legittimamente dedurre o trarre da ciascuno di essi le considerazioni che gli sembrano più ovvie in riferimento ai tempi, alle usanze, ai problemi, ai comportamenti e agli altalenanti rivolgimenti che la società sta attualmente vivendo. Gli articoli sono tratti dal libro “Voci di Capitanata” di Donato D’Amico.
Il detto di oggi è: “Chi t’è pol’va spara”, cioè “Chi ha polvere, spara”.
Trattandosi di un proverbio che ci perviene da tempo remoto, quando l’onestà e la rettitudine avevano ancora diritto di cittadinanza nell’azione e nel comportamento dell’uomo, nel senso che erano proprio queste qualità ad ispirare la condotta umana, sarebbe lecito pensare che il motto popolare si riferisse a doti morali e culturali possedute e da far valere sul piano relazionale e pragmatico, vale a dire, a livello di vita vissuta.
La tradizione, invece, propende per un’altra interpretazione, quella utilitaristica, secondo la quale solo chi ha la possibilità e l’opportunità di arrangiarsi riuscirà a cavarsela. Siamo, dunque, alle solite. Siamo, cioè, all’accordo, alla raccomandazione e al compromesso i quali, in dispregio alla preparazione e al diritto, consentono di favorire chi non ha alcuna attitudine né requisiti per ricoprire degnamente cariche di ufficio o posti di lavoro. Questo significa che il merito e le capacità personali soggiacciono molto spesso alle raccomandazioni e alle pressioni dei “potenti”.
Probabilmente, nei tempi andati, l’intervento protettivo poteva anche trovare una certa giustificazione di carattere etico dovuta alla constatazione che fino al secolo scorso determinate classi sociali si arrogavano impunemente speciali diritti e privilegi che esercitavano a totale danno dell’intera comunità. Diciamo che la “raccomandazione” era allora una sorta di rivalsa al sopruso subito. Raccomandazione che noi comunque non condividiamo perchè, al di là di ogni necessità, noi propensiamo prima per la giustizia e la carità. Non dobbiamo mai dimenticare che nello stesso momento in cui assecondiamo le richieste del “raccomandato”, noi lediamo il diritto altrui, cioè, danneggiamo volontariamente e moralmente gli interessi di terze persone, altrimenti non facilmente scavalcabili.
Oggi, purtroppo, la situazione è precipitata. Alla vecchia e ingenua raccomandazione, il più delle volte fatta in perfetta buona fede e a scopo umanitario, è succeduta la “tangente”, collegata al binomio corruzione-concussione. Come dire: il buon ufficio e la protezione a pagamento per ottenere commesse di lavoro, concessioni d’appalto o favori di altro genere. Ogni commento ci sembra superfluo. Auguriamoci solo di uscirne presto, perché già risalire dal precipizio in cui siamo caduti sarà un’impresa ardua. Si pensi, ad esempio, all’incerto atteggiamento dei vari movimenti politici di fronte allo sfascio procurato dall’intreccio consociativo polimafiotengentocratico. E’ uno sconcerto totale soprattutto per gli uomini onesti, i quali desiderano chiarezza e trasparenza di rapporti con la classe politica, buona parte della quale è risultata affetta da “tangentite ricettizia plurimiliardaria”.
Ben vengo, dunque, una nuova classe politica, augurandoci che essa non si appropri più della sovranità dello Stato e consideri la sua presenza un “servizio onesto” da rendere alla società civile e non un diritto da esercitare impunemente a danno dei più deboli. Soprattutto, fidiamo nella giustizia, checchè ne dicano alcuni indagati. S’intende, non la giustizia ad ogni costo, ovvero quella persecutoria, ma la “giustizia giusta”: quella tesa a riequilibrare i rapporti tra il potere economico-politico e le esigenze dei cittadini, che spesso risultano impossibilitati a tutelarsi e difendersi.