Continua una nuova serie di articoli che parlano sui modi di dire e degli aforismi locali per capire e analizzare la quo ed offrire una visione chiara, lucida e trasparente della condizione umana in cui ognuno di noi può legittimamente dedurre o trarre da ciascuno di essi le considerazioni che gli sembrano più ovvie in riferimento ai tempi, alle usanze, ai problemi, ai comportamenti e agli altalenanti rivolgimenti che la società sta attualmente vivendo. Gli articoli sono tratti dal libro “Voci di Capitanata” di Donato D’Amico.
Il detto di oggi è: “Chi cent sciat addora, te‘ u soia ca puzza” cioè “Chi cento aliti odora, ha il suo che puzza”.
Ragioni e condizioni di incompatibilità possono sempre insorgere anche in quelle situazioni che a noi, ignari spettatori, sembrano assolutamente tranquille. Naturalmente, quando questi episodi si verificano e divengano di dominio pubblico allora ci si meraviglia molto e spesso si grida allo scandalo, non solo, ma quando la crisi familiare esplode allora l’ipotesi più strana e le congetture più azzardate corrono di bocca in bocca.
Dobbiamo dire che il proverbio ha una forte valenza psicologica desumibile dalla traduzione letterale del motto popolare. Da essa, infatti, si evince un certo modo di comportarsi della persona “in peccato”, la quale tende a frugare (odorare) nella vita degli altri per scoprirvi analoghe manchevolezze o fatti, circostanze e misfatti altrettanto disonoranti e disonorevoli. Vogliamo che nell‘essere umano una strana ed inconscia forma di difesa della propria discutibile condotta ed onorabilità si concreta, di solito, in una sorta di attività investigativa su presunti fatti illeciti a carico di vicini o compaesani, quasi che la conoscenza dei vizi, difetti e guasti (in senso morale) di altre persone possono attenuare le proprie manchevolezze, gli eventuali sotterfugi cui si è ricorso, le magagne nascoste.
Di qui, la sentenza inappellabile del proverbio contro quelle persone che investigano solo perché “il loro fiato puzza” cioè, la loro condotta non è immune da recriminazioni. Infatti, è opinione comune che l‘indagine da esse svolta, altro non è che una iniziativa propedeutica a veri e propri atti di difesa personale, cioè, di accusa verso gli altri allorché certe loro azioni peccaminose vengono alla ribalta. Diciamo che l‘uomo si prepara a controbattere il suo possibile ipotetico accusatore.
Quanto valgano a coprir le proprie cattive azioni le accuse mosse agli altri non lo sappiamo. Di certo, l‘infamia e il disonore non si cancellano sbandierando alla pubblica opinione le debolezze altrui. La riservatezza vorrebbe che si “odorasse” l‘alito del vicino quando il proprio ammorba e contamina. Viceversa, sarebbe molto più opportuno che noi imparassimo, una volta per sempre, ad assumerci tutte le responsabilità connesse alle nostre azioni da esse derivanti. Sarebbe un atteggiamento che potrebbe far riconsiderare il giudizio poco lusinghiero che, di solito, l‘uomo della strada esprime su fatti e personaggi che frastornano la vita della comunità.