CAMBIARE IL REDDITO DI CITTADINANZA PER RENDERLO PIU’ EFFICACE

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Due paradossi caratterizzano il reddito di cittadinanza: lo percepiscono persone che non ne hanno diritto e non raggiunge l’80 per cento dei poveri relativi. Resta però uno strumento fondamentale contro disagio e povertà. Ecco come riformarlo.

Il problema dei “beneficiari non poveri”. È di questi giorni il “Bilancio operativo 2020” della Guardia di finanza, che illustra sinteticamente i risultati delle indagini svolte nell’ultimo anno. Tra le tante attività di controllo, ha destato attenzione particolare la verifica su redditi di cittadinanza indebitamente percepiti, che ha portato a contestazioni per circa 50 milioni di euro, soggetti al complesso iter che dovrebbe concludersi con somme definite e poi riscosse da parte della pubblica amministrazione.

Sebbene la notizia abbia suscitato scalpore e irritazione, per l’indebita percezione di somme destinate ai poveri da parte di nuclei che non lo sono, va sottolineato che purtroppo il fenomeno dei “beneficiari non poveri” e, più in generale, della spesa pubblica diretta a soggetti che non ne avrebbero diritto è di ben altre dimensioni.

In tema di reddito di cittadinanza in questa sede è stata riportata una stima che tenta di individuare non solo i soggetti verificati e contestati dalla Guardia di finanza, dall’Inps o dall’Agenzia delle entrate, ma il più ampio insieme di persone che, seppure non indagate e contestate, dichiarano alla Pa redditi inferiori al vero e, per questa via, beneficiano di trattamenti non dovuti. Si tratta non solo di evasori fiscali in senso stretto, ma anche di lavoro nero totale o parziale, cui andrebbero aggiunte le false registrazioni anagrafiche che, attraverso la distribuzione della residenza dei vari componenti di una famiglia su più unità immobiliari, riescono da un lato a ridurre imposte e tariffe pubbliche, dall’altro a massimizzare erogazioni e trasferimenti.

Attraverso un modello di microsimulazione che coniuga informazioni dichiarate all’indagine Istat sui redditi delle famiglie con quelle dichiarate al fisco, nel contesto di una condizione economica ordinaria pre-pandemica, si è pervenuti all’identificazione di tre aree di rilievo per la messa a fuoco dei meccanismi allocativi generati dall’attuale RdC:

1) i soggetti effettivamente poveri (definiti come coloro che possiedono un reddito equivalente inferiore alla metà di quello mediano) che percepiscono il Rdc: si tratta dell’area per la quale è stato pensato un intervento anti povertà;

2) i soggetti poveri che, per un eccesso di requisiti di accesso (soglie incrociate di reddito familiare, Isee, patrimonio immobiliare e patrimonio finanziario, restando sui requisiti economici) non hanno diritto al Rdc;
3) i soggetti non poveri che, grazie all’evasione di autonomi, al sommerso totale o parziale di dipendenti ed a registrazioni anagrafiche non veritiere, fruiscono indebitamente del Rdc.

Il primo sottoinsieme (poveri beneficiari) rappresenta circa il 20 per cento dei poveri, il 70 per cento dei beneficiari totali ed il 62 per cento delle somme erogate, e spiega perché nonostante tutto si osservano anche in condizioni economiche pre-pandemiche abbattimenti della povertà e della concentrazione del reddito.

La seconda area (poveri non beneficiari), quantificabile in circa l’80 per cento residuo dei poveri, discende dai troppo stringenti requisiti di accesso in base alla residenza in Italia degli extracomunitari, da un ruolo abnorme del patrimonio posseduto come requisito di esclusione a sé stante ed aggiuntivo rispetto ad un reddito familiare che già computa le quote derivanti da patrimonio (sebbene con limiti, primo tra tutti la sostanziale assenza del reddito da prima casa) e infine da una scala di equivalenza molto lontana da quelle che considerano le economie di scala intrafamiliari su basi scientifiche e che svantaggia notevolmente le famiglie numerose, dove si annidano le principali sacche di povertà.

Per questi motivi, si può affermare che questo effetto (difetto) allocativo dipende strettamente da scelte politiche di disegno dell’intervento, fondate probabilmente da un lato sull’esigenza di contenere i costi dell’intervento complessivo, visto l’elevato assegno Rdc massimo per un individuo singolo (pari a 9.360 euro annui netti), e dall’altro sul voler escludere poveri possessori anche di modeste quote di patrimonio (per esempio ammontari di risparmio di un singolo superiori a 6mila euro per eventuali evenienze avverse).

Il terzo segmento, quello dei beneficiari che non sono poveri, è attribuibile a evasione ed elusione in senso lato (comprese le false registrazioni anagrafiche) e in questo senso bisogna essere consapevoli che le distorsioni allocative operate da evasione degli autonomi e sommerso dei dipendenti sono un problema che non può essere eliminato dall’impianto normativo del Rdc; questi fenomeni sono presenti in tutti i paesi e producono specie in Italia significative distorsioni in tutte le forme di attribuzione di benefici (anche quando fondate su un Isee che presenta limiti di misurazione della capacità contributiva e che comunque non riesce a vedere redditi evasi e sommersi). Da questo punto di vista emerge solo un motivo in più per impostare valide strategie di medio periodo che comprimano l’economia sommersa e le forti distorsioni informative delle anagrafi. Resta però diretta scelta del legislatore consentire con una certa facilità l’ottimizzazione delle residenze al fine di comprimere il carico fiscale ed aumentare i trasferimenti a proprio vantaggio (fenomeno che ha forti ricadute anche sull’Isee e tutte le sue applicazioni). Questo segmento è quantificabile in circa il 30 per cento dei beneficiari e nel 38 per cento degli assegni erogati (circa 3 miliardi, un grosso multiplo dei 50 milioni, peraltro solo contestati, dalla Guardia di Finanza).

Come migliorare il reddito di cittadinanza. È opportuno prevedere al più presto un’evoluzione del Rdc, che potrebbe essere fondata su queste linee guida: assegno che arrivi alla maggioranza dei poveri, ma con riduzione dell’importo base individuale e una scala di equivalenza che torni al suo ruolo di equalizzatore di nuclei sotto il profilo del benessere economico; definizione dei nuclei familiari che finalmente riconduca ad una sola abitazione i coniugi ed i familiari stretti non in grado di avere autonomo sostentamento; reddito familiare di riferimento realistico (cioè con redditi immobiliari vicini a quelli di mercato, anche quando figurativi) e omnicomprensivo (in particolare del reddito da casa di abitazione); attenuazione del disincentivo a lavorare o a far emergere i relativi redditi, cioè attenuazione dell’aliquota marginale implicita, oggi vicina al 100 per cento.

Un impianto che potrebbe concretizzarsi in questi punti:

– un’avvicinamento tra nozione di beneficiario Rdc e povero, attraverso l’abolizione dei diversi requisiti patrimoniali (compreso l’Isee, che attraverso l’abnorme ruolo del patrimonio più che discriminare tra evasori o meno sfavorisce il risparmiatore a parità di reddito), ma con piena considerazione del reddito da patrimonio, quantificabile anche figurativamente e forfetariamente;

– un valore soglia del reddito e quindi dell’assegno limitato a 6mila euro equivalenti, calcolati con una scala di equivalenza collegata a effettive economie di scala intrafamiliari e perciò più generosa e non discriminatoria verso le famiglie numerose (potrebbe essere quella in uso per l’Isee). La riduzione dell’assegno massimo di cittadinanza costituirebbe di per sé un maggior incentivo a cercare ed accettare un lavoro;

– un’evoluzione delle norme anagrafiche che prevedano per tutte le situazioni (fiscali, di spesa o Isee) un’unica abitazione principale per coniugi e per figli al di sotto di una soglia reddituale realistica (ad esempio la stessa di quella per la percezione del Rdc, o della pensione sociale);

– un’unica misura del reddito familiare e superamento della suddivisione dell’assegno in due quote, conseguente al pieno computo del reddito di mercato delle abitazioni nel reddito soglia Rdc (a partire dal quale calcolare per differenza l’assegno spettante); in sostanza il reddito familiare dei proprietari comprenderebbe pienamente i redditi da patrimonio e supererebbe perciò l’attuale “compensazione” per gli inquilini costituita dal rimborso del canone;

– in caso di un incremento dei redditi, da nuovi lavori o da emersione, il loro computo per il reddito familiare di riferimento avverrebbe al 50 per cento per un biennio o triennio, onde attenuare drasticamente, automaticamente e per un periodo congruo, il disincentivo vigente all’emersione e al lavoro;

– un allentamento dei vincoli per i residenti extracomunitari, da avvicinare o equiparare a quelli vigenti per il reddito di inclusione.

Un impianto di questo tipo avrebbe anche i pregi di semplificare la complessa regolamentazione odierna e allentare la pressione di specifiche norme di tipo workfare, da perseguire con strumenti ordinari rafforzati e migliorati.

Queste linee di riforma perseguirebbero un minor accesso al Rdc di non aventi diritto attraverso meccanismi automatici fondati su reazioni di comportamento (minor interesse a rischiare, minore fattibilità di azioni elusive), fermi restando i benefici di medio periodo di una solida e costante strategia per l’emersione di evasione degli autonomi e sommerso dei dipendenti. (lavoce – fernando di nicola)