ACQUA: MEGLIO LISCIA, GASSATA O DEL RUBINETTO?

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Ogni italiano beve in media 206 litri l’anno di acqua minerale (siamo secondi solo al Messico), spendendo qualcosa come 10 miliardi di euro, che per circa un quarto sono fatturati dagli imbottigliatori (il resto sono trasporto, intermediazione, stoccaggio e distribuzione, Iva). Per prelevare l’acqua si paga un canone demaniale di 2 millesimi di euro al litro, circa 18 milioni. Detto così, fa impressione: come è possibile permettere che imprese private, spesso multinazionali, saccheggino il “bene comune”, lasciando al territorio solo le briciole? Invece si tratta di un ennesimo falso problema. Prima di tutto, si tratta di molti litri, ma pochissimi milioni di metri cubi (unità da usare per far di conto in materia di risorse idriche). Il consumo di acqua minerale non intacca nemmeno marginalmente l’equilibrio del bilancio idrico. Può capitare qua o là che un grande stabilimento entri in conflitto con altri usi locali, ma è un problema che si risolve amministrando quella particolare concessione.

L’Italia possiede una gran quantità di fonti di acqua adatta all’imbottigliamento, o in virtù di particolari proprietà organolettiche, o perché sgorga al riparo da contaminazioni di origine antropica.
Nei paesi poveri, non si può farne a meno (in America Latina, Asia e Africa l’acqua erogata dal servizio pubblico, quando c’è, non è quasi mai potabile). Gli italiani potrebbero invece tranquillamente bere quella del rubinetto. Non proprio tutti, è vero: ci sono ancora località dove gli acquedotti vanno a singhiozzo, altre dove le falde sono inquinate o contengono naturalmente sostanze indesiderate come l’arsenico. Senza contare il sapore, che qualche volta non è dei migliori. Ma insomma, con qualche eccezione, si può dire che in Italia l’acqua minerale è un bene voluttuario. È solo per effetto di una pubblicità martellante, di ricordi lontani, di paure ataviche, dello snobismo gastronomico (c’è chi la usa anche per cuocere la pasta e fare il caffè) che la percepiamo come un’ovvia necessità. Se gli italiani sono disposti a spendere circa 70 centesimi al litro (più la fatica di trasportarsela a casa), pur di fare “plin plin” o immaginarsi altissimi e purissimi in cima all’Everest, possiamo deriderne la credulità, stigmatizzare chi specula sulle loro paure, fare campagne per ricordare che l’acqua di rubinetto è buonissima: ma poi, alla fine, a che pro? Sarà pure un bene voluttuario, ma il suo consumo non toglie nulla a nessuno. Fa semmai specie vedere tante battaglie sulle tariffe dell’acqua di rubinetto, quando la famiglia media spende senza battere ciglio quasi altrettanto (129 euro/anno contro 163) per la minerale.

Veniamo al canone demaniale – che è la tassa che ogni utilizzatore dell’acqua paga allo stato (meglio, alle regioni) in cambio del diritto di prelevarla e utilizzarla. È effettivamente irrisorio (come peraltro per tutti gli altri usi dell’acqua, idroelettrico a parte). Ma chi ne trae vantaggio? I 2,8 miliardi fatturati dagli imbottigliatori non sono solo profitto, anche se la materia prima principale, l’acqua, è gratis. Ci sono i costi delle bottiglie vuote, gli impianti che le riempiono, tappano, etichettano e confezionano, i controlli di qualità, le persone che sovraintendono a tutto questo, la pubblicità, i testimonial, le tasse. Le imprese del settore presentano un Ros (returns on sale, il rapporto tra utile netto e fatturato) medio del 5 per cento, che sale al 7 per cento per il decile di imprese maggiori (che da sole fanno il 75 per cento del mercato). In tutto, l’utile è pari a circa 143 milioni di euro. I 18 milioni incassati dalle regioni corrispondono a circa il 13 per cento dell’utile totale.
Il Roe (return on equity) medio è del 10 per cento (poco più alto della media nazionale del 9 per cento), ma per le maggiori è pari al 14 per cento. Spazio per erodere la rendita degli imbottigliatori un pochino ce n’è, ma non quanto si favoleggia. A differenza della produzione idroelettrica – dove le possibilità di generare energia sono limitate e quindi chi le sfrutta gode di una rendita di scarsità – quello della minerale è un settore concorrenziale. Abbiamo 265 marche tra cui scegliere: difficile lucrare profitti abnormi, sebbene le big, a suon di pubblicità, siano riuscite a egemonizzare il mercato.

Quindi se, come propone Legambiente, il canone venisse decuplicato, verosimilmente si trasferirebbe sul costo della bottiglia, come ogni altro costo di produzione in un settore concorrenziale. Sarebbe l’ennesima accisa, insomma. Con benefici assai dubbi sul piano ambientale. I costi ambientali del consumo di minerale sono legati non tanto all’acqua, ma alle bottiglie: milioni di contenitori che finiscono nella spazzatura (sempre più nella raccolta differenziata, ma ancora siamo lontani dal recuperarla tutta).

Il problema non si risolve tassando il consumo di acqua, ma quello di bottiglie e confezioni, con strumenti analoghi a quelli impiegati per le buste del supermercato. Ancora, si potrebbe anticipare gli impegnativi obiettivi del pacchetto per l’economia circolare (“circular economy package”), stabilendo un congruo target di riciclo per le bottiglie (in particolare di quelle di plastica).

Antonio Massarutto

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