I COMPITI DELL’AVVOCATO DIFENSORE DEL POPOLO

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Il presidente del Consiglio incaricato Giuseppe Conte si è presentato ai giornalisti autodefinendosi come “l’avvocato difensore del popolo italiano”. Un professore universitario di diritto privato che – anche da premier – voglia fare l’avvocato certamente disinnesca subito la potenziale accusa di incompetenza spesso rivolta ai politici vincitori delle elezioni dello scorso 4 marzo. Il professor Conte, forte della sua esperienza, non vuole tuttavia solo essere un generico avvocato, ma un avvocato difensore “del popolo italiano”, evidentemente ritenuto minacciato da qualcuno che sta al di fuori del popolo italiano stesso.

La lista delle minacce può essere molto lunga: l’euro, l’Unione europea, la globalizzazione, la Cina, la Germania. Secondo quanto affermato nell’articolo 10 del contratto per il governo del cambiamento tra queste minacce non ci sono la Russia di Vladimir Putin, identificata come “partner economico sempre più rilevante”, né gli Stati Uniti indicati come “alleato privilegiato” nell’ambito dell’Alleanza atlantica. Su questo punto, a tranquillizzare gli osservatori europei, c’è un’altra affermazione del presidente incaricato che ha ricordato la collocazione europea dell’Italia e la sua consapevolezza che in Europa sono in atto importanti negoziati come quello sulla riforma del bilancio europeo, sul diritto di asilo e sul completamento dell’unione bancaria. Partecipare in modo incisivo a questi negoziati significa impegnarsi a una presenza continuativa e costruttiva in netto contrasto con i toni fiammeggianti usati in ogni occasione da vari esponenti della maggioranza nei confronti della Ue.

Al di là delle parole, l’avvocato difensore del popolo italiano dovrà prima di tutto tutelarne il benessere economico. E ciò fissa in modo abbastanza preciso le cose da fare e da non fare, alcune delle quali sono indicate nel Contratto di governo.

La missione dell’avvocato difensore del popolo italiano comincia con le misure che servono a promuovere i redditi da lavoro. E se né un premier né il suo governo possono fissare i redditi per decreto, è pur vero che possono prendere decisioni che li influenzano. E qui non ci sono scorciatoie: un aumento sostenibile dei salari richiede di far salire la produttività in modo da consentire alle aziende di aumentare gli stipendi pur continuando a fare profitti. Purtroppo, la crescita della produttività è la grande voce mancante dall’economia italiana negli ultimi vent’anni. Curiosamente, però, oltre a mancare nei dati storici, produttività è anche una parola dimenticata nel contratto di governo Lega-M5s. In un contratto dedicato a raccogliere lo scontento di tante categorie prese una per una, sembra non esserci spazio per misure volte a far stare meglio tutti come quelle che aumentano l’efficienza produttiva.

Oltre ai salari il benessere delle famiglie è anche influenzato dalla creazione di posti di lavoro e dal numero medio delle ore lavorate.  E qui, come osserva Pietro Ichino, le affermazioni critiche – se non sprezzanti – usate nella compagna elettorale verso le politiche del lavoro dei governi passati sono ora scomparse dal contratto di governo. Nel suo articolo, Ichino indica con chiarezza le aree di miglioramento e i temi rimasti fuori dal Jobs act su cui il governo potrebbe intervenire. Ma lo dovrebbe fare senza scardinare tutto, identificando pragmaticamente i problemi nel tentativo di risolverli.

Un premier che voglia tutelare il benessere del suo popolo non può fermarsi ai redditi da lavoro lordi, ma deve guardare ai redditi al netto di tasse e trasferimenti statali come anche ai redditi da capitale e ai pagamenti di interessi. Tasse e trasferimenti sono il cuore del contratto: si va dalla cancellazione degli aumenti programmati delle imposte indirette alla flat tax fino al reddito di cittadinanza. L’effetto netto delle misure proposte sul reddito netto familiare dipende però dalla loro sostenibilità. Le stime dell’ammontare di questi provvedimenti è imponente e probabilmente non inferiore ai 100 miliardi, senza che il contratto descriva quali spese vengano ridotte per compensare i tagli di tasse e gli aumenti di spesa. Per attenuare l’impatto di queste misure sul deficit corrente il presidente incaricato ha parlato subito di “pace fiscale”, un provvedimento una tantum da cui la maggioranza si attende un finanziamento parziale e temporaneo delle generose misure proposte. Nell’attesa che i provvedimenti si auto-finanzino grazie all’auspicata emersione di base imponibile.

Al di là delle congetture, la conseguenza sicura dell’adozione di misure che aumentino il deficit pubblico sarebbe quella di allarmare i mercati e l’Europa, certamente non rassicurati da dichiarazioni come quella di Salvini sul fatto che il debito, “stavolta sarà rimborsato con la crescita”. È vero che dopo il 2011 Francia e Spagna sforando il tetto del 3 per cento di deficit sono cresciute più dell’Italia. Ma più deficit e più crescita sono arrivate con un netto aumento del rapporto debito-Pil: in Spagna, ad esempio, era il 36 per cento nel 2007, mentre oggi sfiora il 100 per cento. La storia recente insegna che si può crescere un po’ di più con il deficit ma solo facendo più debito. Sembra ovvio ma non lo è: fare deficit non riduce il debito, ma lo fa salire.

È quindi probabile che uno spread più alto oggi a causa di un maggiore deficit voglia dire rischio di default e di tasse più alte domani per far quadrare i conti. Non solo: di solito uno spread più elevato va oltre il settore pubblico ma incide sull’attività bancaria e aziendale, provocando un più elevato costo dell’indebitamento per le imprese e per le banche (che sono imprese). In un lavoro del 2012, alcuni economisti della Banca d’Italia avevano trovato che un aumento dello spread è associato alla “crescita sia del costo della raccolta all’ingrosso e di alcuni strumenti al dettaglio, sia del costo del credito alle imprese e alle famiglie; la trasmissione ai tassi bancari tende a essere più marcata nei periodi di turbolenza finanziaria. Un aumento dello spread esercita inoltre un effetto negativo diretto sulla crescita dei prestiti, che si aggiunge a quello connesso con l’incremento dei tassi d’interesse attivi”. I dati dicono che, se alle banche costa di più raccogliere fondi, finiscono per trasferire sui loro clienti questo aggravio di costi.

Riassumendo, la formula che descrive il premier come un avvocato difensore del popolo non è solo un efficace strumento comunicativo, ma fissa anche utili paletti sulla base dei quali sarà possibile valutare con una certa precisione la bontà delle politiche adottate, almeno con riferimento alla tutela del benessere economico del “popolo italiano”.

Francesco Daveri