SAN NICANDRO, LA CHIESA MATRICE

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Ecco come descrive la Chiesa Matrice Silvio Petrucci nella sua “San Nicandro, Alba Novecento”.

La Cattedrale, vista di prospetto, non manca di una certa imponenza, con la sua ampia fronte decorata dalle pietre squadrate e levigate, i due alti e stretti finestroni gotici, la duplice rampa di scale che dà sul sagrato lungo, rettangolare e, a fianco, il quadrato turrito campanile, le cui campane hanno una voce calda che avvolge in un’onda melodiosa l’intero paese.

Nella Chiesa, con le statue dei tre Patroni – San Nicandro, San Marziano e Santa Daria – si custodivano quelle di tutte le “stazioni” del cammino di Cristo sulla via del Calvario che venivano portate in processione il Venerdì Santo con l’Addolorata venerata nella Chiesa dei Morti: e vi si ammira un grande affresco eseguito sulla volta da un giovane pittore del luogo, Alessandro Mastrovalerio, emigrato poi in America.

Nella monumentale opera “Le Cattedrali di Puglia” così si accenna alla Chiesa madre di San Nicandro: “La Chiesa Matrice di Santa Maria del Borgo è detta localmente “La Cattedrale”, in memoria di un’aspirazione non appagata e della lontana visita di un vescovo per il quale gli artigiani del luogo apprestarono in fretta un’artistica cattedra in legno intagliato e ferro battuto, andata poi distrutta. L’attuale chiesa fu fondata nel 1539, sul posto di quella precedente più e più volte abbattuta dai terremoti e sempre riscostruita, insieme con quasi tutto l’abitato della cosiddetta “Terravecchia” e con la chiesetta di San Giorgio intorno a cui le modeste case di quel vetusto ermo angolo del paese si raccoglievano e si raccolgono tuttora”.

I tre patroni di San Nicandro sono chiamati i “martiri di Venafro”, dal nome della città molisana in cui i tre furono giustiziati dai romani sotto l’accusa di diserzione e ribellione, di sovvertimento di popoli e dispregio di dei. Ciò perché non avevano voluto rinnegare la religione di Cristo alla quale, nati pagani, si erano convertiti. Nati in Africa Nicandro e Marziano erano capitani delle legioni romane, quando furono trasferiti in Italia. Il 13 giugno 202, sotto l’imperatore Massimiliano, ebbero prima le lingue recise e poi furono decapitati. Due giorni dopo veniva giustiziata Daria, moglie di Nicandro, per averlo esortato a non temere né supplizi, né morte e a rimanere fedele a Cristo.

L’Arciprete Matteo Zaccagnino nelle sue “Memorie storiche di Sannicandro” del 1837, rileva che il Vallone costeggiante l’abitato “abbondava di serpi, che nei tempi andato erano di smisurata grandezza, una delle quali giunse a minacciare la popolazione di strage e la cui effige sta incastrata nella porta dell’archivio della sagrestia nostra, per conservare la memoria e la tradizione della grande serpe di S. Nicandro”.

Mons. D’Alessandro, invece, dava una spiegazione un po’ dottorale del duplice esemplare – storio e simbolico – della serpe che figurava sulla porta dell’archivio capitolare; e la riportiamo lasciando a lui la responsabilità interpretativa: storico, dunque, perché ricorda il serpe di Dio, nel deserto, ordinò a israeliti morsicati dai serpi vari, ammirandolo con devozione, ne traessero guarigione e fede; simbolico perché vi era indicato lo stesso Gesù in Croce, al quale si rivolgevano i pertiti e i penitenti per riceverne la redenzione e la salute.

Una colonnina votiva, attualmente si trova nel giardinetto della Chiesa Madre. Prima si trovava ai piedi del campanile, ove venne eretta a ricordo della grave peste che nel secolo diciassettesimo decimò S. Nicandro, come molti altri paesi della provincia. Essa reca la seguente iscrizione: “De voto hanc populus – construxit corde colunnam – a peste ereptus – ducis Michaelis ope – sub DD Silvestri – de afflicto epatu – A.D. 1681”.

Questa segnalazione mi è stata fatta dall’avvocato Giuseppe Tozzi il quale, tra le altre curiosità storiche contenute nel registro degli atti di battesimo della Cattedrale, ne scoprì una del 1606 riferentesi alla dimora in Sannicandro di una duchessa di Monteleone, imparentata al nobile don Ottavio Caraprese.

La statua del Santo Patrono era di cartapesta, dalla lorica un pò stinta che faceva pensare alla pelle di un coccodrillo stanco ma che attraeva i paesani, non solo per devozione, ma anche perché San Nicandro reggeva con una mano all’altezza della sua spalla il paese di latta verniciata, mentre con l’altra stringeva la palma del martirio.