SAN NICANDRO: DA “COPP L’ACITTA” ALLA SCALINATA DEI “POZZI”

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Una descrizione di San Nicandro tratta da “Alba Novecento” di Silvio Petrucci.

Dopo il Portone di Pertone, ecco subito la “Copp l’accitta”: viene detto così in dialetto il culmine di un’altura e vuol dire “Coppa dell’accetta”’ per ricordare un lontano truce delitto in cui un contadino era caduto sotto i colpi dell’accetta vendicatrice d’onore. Ma, secondo un’ipotesi prospettata da Alfredo Petrucci, la denominazione della località potrebbe essere invece “Coppa dell’Accetto” a conferma dell’origine pugliese del grande scultore Accetto, della prima metà del secolo XI che legò il suo nome a tanti mirabili monumenti dell’arte romanica. Una ipotesi, però, che non ha alcuna conferma in altre fonti.

Scavalcando la “coppa” si rasenta un muretto di pietre su cui è infissa una Croce, pare a ricordo della vittima di quella leggenda. Di là della croce, in alto, la chiesetta di San Giuseppe, dal lato opposto la collina di Montevergine con una chiesetta antica anch’essa, ma diruta. La strada scivolo poi verso la vallata ove scorre il torrente Canalone”. Da questo punto si stendeva allora la “piana dei pizzi”’ anticamera pittoresca del paese per la duplice scalinata delle strade tre a gradini e dei tetti disposti a scaglie.

La scalinata Lesina è la “Costa”’ una rampa che a percorrerla dava vertigine.

Le portatrici d’acqua di recavano a riempire lo loro belle conche di rame alla “piana dei pozzi”. Infatti, a destra della strada, copi la discesa della “Coppa dell’Accetta”, si stendeva ai margini dell’abitato un pianoro fangoso e traforato da profonde buche di uguale foggia e dimensioni; erano i pozzi destinati a raccogliere l’acqua piovana è quella che straripava dal “Canalone” in piena per fornire l’alimento idrico della popolazione. Molte famiglie signorili avevano invece l’acqua in casa, in cisterne e pizzi propri, trivellati nei loro cortili e giardini. Ma la maggior parte della popolazione andava ad attingere acqua alla “piana dei pozzi”. La grande bocca di ogni pozzo era recinta di quattro bassi muretti di pietra e coperta da una tavola e, qualche volta, da uno sportello di ferro con lucchetto.

Le donne si accavalcavano ordinatamente attorno a quei pozzi, aspettando il loro turno e ingannando l’attesa con un brioso cicaleccio alimentato dai più freschi pettegolezzi paesani.

Molti, perciò, di solito, erano gli uomini che si recavano ad assistervi, fermandosi con discrezione ad una certa distanza, sulla strada e numerosi furono i forestieri che ne scrissero non senza una certa originalità. L’americana Caterina Hooker, che si era fermata appunti ai pozzi, non seppe celare il suo stupore quando apprese che quell’acqua raccolta come Dio la mandava è custodita senza un accorgimento sanitario, non nuoceva alla salute dei nativi. Pensò che l’uso secolare col tempo avrebbe provocato, di generazione in generazione, nel popolo antitossine tali da metterlo in grado di assorbire il veleno.

In altre parole, lo stomaco dei sannicandresi veniva paragonato a quello di Mitridate che, si sa, con il frequente uso di veleno, ne era immunizzato. Resto comunque immemorabile, negli annali Garganico, e se ne parlò per. Osti anni come un evento miracoloso, il fatto che in occasione di una epidemia di colera che nell’estate 1911 imperversò in zona, l’unico paese che ne rimase immune su proprio San Nicandro.

Ma drammatica diventava la situazione quando, è il fenomeno non era infrequente, per un prolungato periodi di siccità, i pozzi rimanevano asciutti. L’acqua, allora, si andava ad attingere a lontane sorgenti, come il pizzo di Matilde, in prossimità del mare, sulla via di Maletta e, quando i carretti sovraccarichi arrivavano in paese, la popolazione assetata li prendeva d’assalto in un furioso arrembaggio. Nelle case si conobbe sin d’allora quel supplizio di razionamento dei viveri che doveva tormentarci poi, durante la prima e, soprattutto, la seconda guerra mondiale. Le ragioni erano rigorosissime: tanta acqua per bere, tanta per la cucina, tanta per lavarsi, mentre, per innaffiare le piante dei fiori e di erbe aromatiche nei vasi e negli orci che ornavano le terrazze e balconi, solo qualche goccia sufficiente a salvarle dalla morte. La povera gente bussava alle nostre porte chiedendo l’acqua nella quale si erano già fatti bollire i maccheroni, per servirsene per la propria cucina.

Con lunghe processioni salmodianti, poi, si portava la statua del Santo Patrono, verso la campagna perché, con un miracolo, vi facesse cadere l’acqua ristoratrice.

Con l’arrivo dell’acquedotto si fece piazza pulita dei pozzi e calò per sempre il sipario su quello spettacolo folcloristico delle conche su pozzi.

Poi a rinfrescare l’acqua nella stagione estiva si provvedeva con la neve, quella che i montanari della vicina San Marco ci portavano dai nevai del “boscoso” e che in paese, custodita in grossi blocchi cubici sotto la paglia, veniva venduta a “tornesi” e a soldi (due o cinque centesimi). La rivendita più nota era in Piazza del Mercato gestita da una donna, Concetta, soprannominata “Squatrone” che aveva un negozio di frutta e verdura.

Niente più portatrici d’acqua dai pozzi ma moderne anfore in equilibrio sulle teste accuratamente pettinate, coi capelli lucenti, annodati in crocchie sulla nuca o spioventi in trecce sulle spalle.