Il contenuto della proposta. La promessa – e cavallo di battaglia – del Movimento 5 stelle sta per diventare realtà: manca infatti solo un voto della Camera, che arriverà forse prima della fine dell’estate, perché i membri di Camera e Senato vengano ridotti di quasi il 40 per cento. Un provvedimento dalla grande valenza simbolica, ma che di certo non risolve alcuno dei principali problemi dell’attività legislativa italiana.
Il percorso della riforma inizia, di fatto, insieme al governo Conte. Nel contratto di governo, infatti, si legge: “Occorre partire dalla drastica riduzione del numero dei parlamentari: 400 deputati e 200 senatori. In tal modo, sarà più agevole organizzare i lavori delle Camere e diverrà più efficiente l’iter di approvazione delle leggi, senza intaccare in alcun modo il principio supremo della rappresentanza, poiché resterebbe ferma l’elezione diretta a suffragio universale da parte del popolo per entrambi i rami del Parlamento senza comprometterne le funzioni. Sarà in tal modo possibile conseguire anche ingenti riduzioni di spesa poiché il numero complessivo dei senatori e dei deputati risulterà quasi dimezzato”.
Dal punto di vista dell’attività parlamentare, il procedimento è stato in effetti piuttosto rapido e le tre votazioni finora effettuate si sono svolte tutte nel corso del 2019: il 7 febbraio il primo voto al Senato, il 9 maggio la prima votazione alla Camera, l’11 luglio il secondo voto al Senato. Ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione, è ora sufficiente l’ultimo e definitivo voto della Camera (che non si potrà comunque tenere prima del 9 agosto) perché la proposta diventi legge. Poiché nella seconda votazione al Senato non è stata raggiunta la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti (180 voti favorevoli sui 210 voti necessari), è possibile che la legge costituzionale sia sottoposta a referendum confermativo prima di entrare in vigore.
La proposta mira a modificare gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione, incidendo direttamente sulla dimensione delle due Camere e si caratterizza come una vera e propria cura dimagrante: la Camera dei deputati passerebbe da 630 a 400 membri (nella circoscrizione estero gli eletti sarebbero 8, mentre oggi sono 12), mentre il Senato scenderebbe da 315 a 200 membri (il numero di eletti nella circoscrizione estero da 6 a 4). Il numero minimo di senatori per regione o provincia autonoma diminuirebbe da 7 a 3. Infine, la norma chiarisce che il numero di senatori a vita nominati per meriti speciali è fissato a 5 come massimo. La riforma, se approvata, sarà attiva dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della legge costituzionale e, in ogni caso, non prima che siano trascorsi sessanta giorni dalla data di entrata in vigore.
Ma è la riforma giusta? La riduzione del numero dei parlamentari è una riforma dall’elevato valore simbolico, vero e proprio cavallo di battaglia del Movimento 5 stelle, che si è sempre presentato come “anti-casta”. A ben vedere, la proposta di riduzione dei parlamentari non è nemmeno così originale: già in passato erano state avanzate varie proposte simili, anche se nessuna è mai arrivata vicina all’approvazione. Tuttavia, restano da capire i reali effetti dell’operazione. Dal punto di vista della rappresentanza democratica, oggi un deputato rappresenta circa 96 mila abitanti (ovviamente, la metà di quanti ne rappresenta un senatore), mentre dopo la riforma ne rappresenterebbe 150 mila. Sarebbe il numero più elevato nell’Unione europea, prima di Spagna (133 mila circa), Francia e Germania (116 mila circa). Questo non significa certo che l’Italia diventerà un paese meno democratico. O perlomeno non necessariamente: è innegabile infatti che la distanza tra eletto ed elettore, anche solo dal mero punto di vista geografico, tenderà ad aumentare. E l’aumento delle istanze di democrazia diretta potrebbe parallelamente indebolire le istituzioni di democrazia rappresentativa. La spesa per stipendi, in linea teorica, dovrebbe ridursi. Non è da escludersi però che aumentando il rapporto di rappresentanza possa un domani aumentare lo stipendio (per i sindaci succede qualcosa di simile). Tuttavia, ammettendo che gli stipendi rimangano fissi, il guadagno atteso per ogni anno sarebbe di circa il 36,5 per cento della spesa totale, vale a dire una riduzione di circa 100 milioni l’anno secondo i proponenti (prendendo quindi le stime più generose). Non sono noccioline e si tratta pur sempre di risorse, è innegabile: ma la cifra equivale a circa lo 0,005 per cento di Pil. Di nuovo, un effetto decisamente più simbolico che tangibile e che si potrebbe ottenere semplicemente riducendo i compensi del 36,5 per cento.
Non si capisce invece come la “dieta” possa avere effetti positivi sulla velocità degli iter parlamentari: permane il bicameralismo perfetto e non cambiano i regolamenti. E certo non vengono risolti i problemi di rappresentanza delle fasce di età più giovani, che restano escluse dalle cariche elettive. Un altro progetto di riforma costituzionale, stranamente scollegato da quello in via di approvazione definitiva, prevede in effetti l’equiparazione di elettorato attivo e passivo di Camera e Senato (18 anni per quello attivo, 25 anni per quello passivo). Sarebbe comunque un passo in avanti, benché, venendo meno la differenziazione, non farebbe altro che trasformare il nostro modello in un bicameralismo “più che perfetto”. (lavoce)
Paolo Balduzzi