QUANDO L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO DISCRIMINA LE DONNE

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Nel corso degli ultimi decenni l’aumento della partecipazione delle donne all’istruzione, al mercato del lavoro e alla vita politica ha ridotto considerevolmente la distanza rispetto agli uomini. Ciononostante permangono tuttora significative differenze di genere nei tassi di occupazione, nei livelli retributivi e nella presenza delle donne nelle posizioni apicali di imprese e istituzioni pubbliche. L’analisi dei fattori che hanno giocato un ruolo determinante nel processo, seppur incompleto, di convergenza mostra dinamiche complesse, in cui aspetti culturali, demografici, economici e istituzionali hanno interagito con le norme sociali che regolano la divisione di genere nei ruoli all’interno della famiglia e nella cura dei figli. Un aspetto che solo recentemente ha attirato l’interesse degli studiosi è se vi sia o meno un pregiudizio di genere (gender bias) nell’organizzazione del lavoro, e cioè se l’individuazione degli obiettivi, la misurazione degli sforzi e la struttura degli incentivi non siano definiti da chi occupa posizioni di vertice nelle organizzazioni (principalmente uomini) secondo modalità che premiano maggiormente gli uomini, costituendo invece una penalizzazione per le donne. Ad esempio, cosa succede se il “capo” fissa un’importante riunione la sera tardi, dopo il termine dell’orario di lavoro? Cosa implica l’affidamento di un compito che richiede lo svolgimento di straordinari o di trasferte fuori sede e dal quale dipenda una promozione? Chi ha maggiori probabilità di percepire un bonus legato al risultato, quando questo viene misurato in modo da premiare la competitività e l’aggressività invece della collaborazione e del lavoro di squadra? Ebbene, la risposta implicita è che le donne, soprattutto quelle con figli, indipendentemente dall’impegno e dalle capacità, saranno svantaggiate e si sentiranno discriminate sul lavoro. Ma ci si può porre anche una domanda alternativa: se invece di un uomo, al comando ci fosse una donna, le cose andrebbero diversamente? Ci sarebbe una maggiore attenzione alle esigenze delle donne lavoratrici, senza penalizzare efficienza e raggiungimento degli obiettivi? E cosa implica per gli uomini avere un capo donna?

In un recente lavoro, abbiamo analizzato le informazioni di un’indagine rivolta a un vasto campione di lavoratori europei, ai quali viene domandato se, sul luogo di lavoro (nei dodici mesi precedenti), abbiano subito uno o più episodi di discriminazione legati al proprio genere. Nell’analisi empirica abbiamo messo in relazione l’informazione con le modalità di organizzazione del lavoro (come intensità di lavoro, lunghezza e flessibilità degli orari di lavoro, esistenza di procedure che consentono di bilanciare lavoro e vita familiare) e col fatto che il proprio “capo” fosse una donna. Da una prima analisi descrittiva sono emersi comportamenti opposti tra uomini e donne per quanto riguarda la relazione tra discriminazione di genere, quota di occupazione femminile e quota di donne “capo” in diverse categorie professionali. In particolare nelle professioni a maggiore concentrazione femminile o con una quota più elevata di donne in posizioni decisionali, la discriminazione di genere percepita dalle donne risulta inferiore, mentre per gli uomini cresce al crescere della presenza di donne in posizioni decisionali. Questo fatto risulta confermato nelle stime econometriche, dalle quali emerge come – a parità di condizioni – la presenza di un capo donna sia efficace nel ridurre la discriminazione tra le donne, mentre la aumenta tra gli uomini.

I risultati suggeriscono poi come la flessibilità negli orari di lavoro e la possibilità di conciliare lavoro e famiglia, contribuiscano a ridurre il “gender bias” percepito dalle donne, mentre tra gli uomini quelle stesse caratteristiche contano relativamente poco. Infine, utilizzando il modello stimato, abbiamo simulato, per diverse categorie professionali, la discriminazione che risulterebbe in un ambiente con condizioni di lavoro maggiormente “family-friendly” (orari brevi, flessibilità, conciliazione lavoro-famiglia), con un ambiente di lavoro “non family-friendly” e cioè con caratteristiche opposte. Le donne siano maggiormente penalizzate da un ambiente di lavoro “non family-friendly” e che la penalizzazione risulta maggiore nelle categorie professionali più qualificate (manager, quadri e tecnici).

I nostri risultati indicano come le politiche di pari opportunità di genere dovrebbero essere orientate, oltre che ai differenziali retributivi, anche alle modalità di organizzazione del lavoro. Ed emerge come la presenza di donne in posizioni decisionali contribuisca a ridurre il pregiudizio di genere sia in modo diretto, diminuendo la discriminazione tra le donne, sia in modo indiretto, creando un ambiente di lavoro meno penalizzante nei confronti dei lavoratori con carichi familiari (che sono ancora principalmente donne).

Claudio Lucifora e Daria Vigani

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