EURO, L’ALIBI PERFETTO DEI GOVERNI NAZIONALI

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I primi vent’anni di euro. L’euro compie vent’anni, la seconda metà dei quali vissuti pericolosamente. Eppure, nei primissimi mesi della crisi finanziaria globale si era affermata la convinzione che i guai finanziari li avevano combinati gli americani e che l’Europa era in grado di limitarne i danni a casa propria, proprio grazie all’euro. Con l’aggravarsi della crisi, si cominciò a temere che l’Europa dovesse pagare, suo malgrado, gli eccessi della finanza americana. Ma quando la crisi si è rivelata lunga e dolorosa, con una seconda recessione tutta europea e programmi di assistenza finanziaria a cinque paesi dell’Unione economica e monetaria, si è incominciata a delineare un’altra interpretazione, e cioè che fosse proprio l’Europa – e la sua moneta unica – la causa dei problemi. Anche gli ultimi numeri forniti il 13 dicembre dalla Banca centrale europea sulle previsioni macroeconomiche complessive dell’area euro non sono certo sfavillanti per i prossimi quattro anni: +1,9, +1,7, +1,7 e +1,5 per cento, con un accresciuto rischio di peggioramento di queste cifre a causa, scrive la Bce, delle incertezze geopolitiche, della minaccia di protezionismo, della vulnerabilità dei mercati emergenti e della volatilità sui mercati finanziari.

L’alibi perfetto. Il fatto è che l’incompletezza dell’unione monetaria fornisce ormai da anni uno straordinario e pericoloso alibi ai governi nazionali, soprattutto quando dimostrano di non essere in grado di proporre un disegno coerente per il futuro del proprio paese. Quando ci si trova in difficoltà, è facile prendersela con l’Europa. E il problema è, appunto, che l’Europa non si dimostra all’altezza della sfida. E allora la protesta rissosa, proprio perché animata da un problema autentico, alimenta la convinzione “sovranista” a fare da soli, senza Europa.

A chiosa delle decisioni di politica monetaria del 13 dicembre, Mario Draghi ha detto (ammettendo tuttavia di non essere imparziale) che l’euro, in questi primi vent’anni, è stato un successo. Ma ha anche messo in guardia sul fatto indiscutibile che non tutti hanno beneficiato di questo successo. E ha aggiunto che non sempre e non soltanto ciò è dipeso da responsabilità nazionali. A una domanda sui disordini in Francia, Draghi si è interrotto, e poi corretto, su una frase che cominciava con “non siamo rimasti sorpresi…”. Insomma, è chiaro a tutti che i numeri del Pil, anche quando crescono, non sono sufficienti per cullarsi nell’illusione che l’economia, e la società che ne è il tessuto, siano in buona salute. E i governi e le varie rappresentanze politiche nei cosiddetti “paesi più vulnerabili” (schiera alla quale appartengono ormai, per molti versi, anche la Francia e persino la Germania) hanno ragione quando puntano il dito contro l’Europa, ma allo stesso tempo godono della pacchia (a termine) di poter facilmente scaricare sull’Europa i costi della propria inadeguatezza a governare paesi che invece chiedono orizzonti politici e disegni coerenti di lungo periodo.

Resiste, purtroppo, in Europa, la convinzione che ulteriori riforme quali il completamento dell’unione bancaria e la creazione di un meccanismo condiviso di compensazione fiscale siano auspicabili ma non urgenti, soprattutto se richiedono costi politici interni di breve periodo. Sarebbe bene invece che la politica europea ritrovasse una strada comune per affermare una maggiore sovranità della politica economica europea. In fondo, la richiesta di sovranità economica nazionale non è tanto una rivolta contro la sovranità europea, che è gravemente incompleta. È piuttosto una reazione alla mancanza di una funzionale struttura istituzionale con chiari obiettivi di occupazione, maggiore equità, sicurezza e scelte strategiche. E che metta le politiche nazionali di fronte alle proprie responsabilità. Senza alibi.

Andrea Terzi (lavoce)(foto:sole24ore)