A SAN NICANDRO

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Si propone un interessantissimo articolo sulla città di San Nicandro scritto da garganoverde.it.

I paesi di montagna, a meno che non siano frequentati per delle attrattive turistiche, offrono in genere uno spettacolo di pauroso abbandono. Case nella maggior parte disabitate, strade pressoché deserte, solo qualche ombra di una generazione che si va consumando. Ma qui a Sannicandro hai l’impressione di qualcosa di robusto e di veramente vitale. Le case fanno tutt’uno con il fondo roccioso. I muri sono innestati direttamente sulla roccia, che tante volte si solleva dalla strada per accompagnare di qualche metro l’altezza della costruzione. Qua e là dei portali che fanno a gara con quello imponente della Chiesa Madre, una ricchezza di scalinate, di archi e di portici, ariose volte a botte, grandi balconate, superbi architravi, dappertutto un uso abbondante della bella pietra del Gargano. Ti senti con i piedi veramente al sicuro, o che tu sia in casa o che cammini sulle strade che hanno la saldezza della pietra mai rimossa, di un tutto pieno, di un cuniculo aperto in una roccia compatta.

Un’impressione di solidità che si completa con la disposizione topografica del paese. Le case sono strette le une alle altre, con gli spioventi piegati tutti nella stessa direzione, ordinate come ambienti di uno stesso edificio. La parte piú antica del paese è quella della ‘terravecchia’: case basse e robuste solcate da labirintiche stradette che si svolgono attorno al ‘Castello(u kastédde). Dalla parte di mezzogiorno vi è il quartiere del vaddóne, dall’altezza del quale spii l’ultima parte del Tavoliere che si stende fino al mare. Dalla ‘terravecchia’ e dal vaddóne si scende alla ‘terra rossa’, al quartiere della Chiesa del Carmine, verso la parte un pò pianeggiante del paese, sulla piazza o sul corso principale, la zona piú frequentata, un passo obbligato per chi abita verso il Convento o verso San Martino, o piú a Nord nel quartiere della ‘civetta’, o dalla parte del ‘boschetto’ o dalla parte del Camposanto, dalla parte piú lontana della Stazione, o anche dalla parte dello stesso villaggio Brenna. Una disposizione molto benarticolata, ma unitaria ed adatta a favorire incontri facili e frequenti.

Qui non trovi nulla del tipico fatalismo della gente meridionale. Hai dinnanzi una massa di uomini in pieno fermento. Ti restano indelebilmente fissati i tratti di questa gente di campagna che si muove per la via principale compassata e disciplinata come sospesa nei tempi di una lunga marcia. Le donne stesse strette nei larghi fazzolettoni neri rilegati dietro sotto la crocchia dei capelli sembrano esse pure in procinto di metter mano ad un lavoro. Gente compatta che ti spaura se la vedi irrompere inquadrata in una processione o in un corteo. Anticamente erano dei pastori, perché questa era l’unica possibilità di impiego che offriva la loro campagna, che non produceva nient’altro al di fuori dell’erba, dei cespugli e degli olivastri. Una campagna per giunta non loro, possesso del demanio, fino a quando non sono passati all’occupazione arbitraria, alla divisione e finalmente allo sfruttamento razionale dell’olivastro, che ora hanno ingentilito e reso fecondo di provvidenziali bacche. Una storia che si è svolta negli ultimi cento anni e che è valsa a levare di un piano tutta la loro attività: da pastori a piccoli contadini, a potatori, ad agricoltori. Un’attività che ha miracolosamente accresciuto la popolazione di San Nicandro con gente che è venuta dalla vicina San Marco in Lamis in tal numero che non vi è sannicandrese che non vanti di avere o di avere avuto un antenato sammarchese.

Anche senza la testimonianza di questi rapporti di parentela, l’affinità linguistica che intercorre tra i due centri fa pensare a una comunione di vicende molto intensa. Si azzarderebbe l’ipotesi che ci si debba trovare dinnanzi ad un’isola caratteristica del Gargano, che, affermatasi prima tra San Nicandro e San Marco ora si va espandendo fino a Lesina. Questo centro, che in origine era popolato probabilmente da albanesi e poi certamente da pugliesi del tipo foggiano-sanseverese, ora si va modellando secondo la lingua e i costumi sannicandresi.

San Marco, San Nicandro, Lesina sono le tappe dell’espansione di una stessa popolazione. Dalla cittadina chiusa nel cuore del Gargano i pastori di origine sono scesi a popolare la terra di San Nicandro. Ed ora San Nicandro riversa su Lesina la irruenza della sua vitalità e della sua popolosità. Gente che si sposa giovane e che figlia abbondantemente, e che oggi disdegna di stabilire rapporti di sangue e di lavoro con chi non sia nato e domiciliato a San Nicandro.

Tutte condizioni che dovrebbero favorire la conservazione di questa singolare comunità linguistica.

Malgrado queste misure di sicurezza, i giovani vanno parlando una lingua che non è piú quella dei loro padri. A questa conclusione si arriva dando uno sguardo ai risultati del controllo ottenuto mettendo di fronte alle stesse domande un bracciante di 53 anni ed un giovanissimo di 16 anni, appartenente a famiglia di braccianti. Su 31 voci prese in considerazione i due informatori concordano pienamente o all’incirca 19 volte. Ma nelle restanti 12 voci presentano delle differenze sensibili.

La fonetica si svolge anch’essa piuttosto rapidamente. Su 27 suoni presi in esame la concordanza piú o meno assoluta si riscontra in un numero di suoni inferiore alla metà, mentre in un numero superiore si riscontrano, specie per quanto riguarda l’uso delle vocali toniche, delle differenze di rilievo.

Ma un quadro ancora piú completo della instabilità della parlata ci è offerto dalle incertezze, dalle esitazioni, dalle correzioni ed anche dalle apparenti contraddizioni che si possono raccogliere nelle deposizioni di altre fonti, che pure sono state scelte fra le meglio informate e le meno esposte agli elementi disgregatori. Un bracciante, che non ha fatto neanche il servizio militare, che ha frequentato le scuole elementari del paese e che non è andato mai oltre il tenimento del suo comune, si corregge frequentemente, e altrettanto frequentemente offre delle varianti lessicali e fonetiche. La a di sillaba chiusa oscilla fra un suono schietto ed un suono palatilizzato in genere; ma sono anche molto frequenti le palatilizzazioni deboli e non manca qualche esempio con una palatilizzazione forte. Un’oscillazione analoga si ha per la a delle tronche degli infiniti: generalmente schietta, ma di frequente anche palatilizzata debolmente, ed isolatamente palatilizzata con una maggiore accentuazione. La a finale in genere non è percepita, ma non mancano casi in cui si fa sentire con molta chiarezza. E’ addirittura sconcertante l’uso dell’articolo femminile singolare: la fonte oscilla tra la ed a. Una sola volta è stato inteso un la con la consonante molto indebolita (una prova della gradualità dello svolgimento dell’oscillazione, che comunque non basta per farci intendere da che parte stia la forma piú antica). La locuzione del tipo pasqu-i-róse (‘Pasqua delle rose’, ossia la ‘Pentecoste’) oscilla con la locuzione del tipo la le de line, la quale ultima forma dovrebbe essere molto verosimilmente quella di epoca piú recente.

Le cose non cambiano quando dal bracciante passiamo al calzolaio di 71 anni. Ha l’arte della parola, e quando ti risponde dà l’impressione di volere dire la sua come la migliore, la parola del vero sannicandrese. Eppure anche nella solennità di questo simpaticissimo uomo non sarà difficile raccogliere i sintomi di qualcosa che ti fugge dinnanzi, di qualcosa di veramente vivace e mutevole.

In un interrogatorio che è durato non meno di quattro ore si corregge per ben 12 volte; la a tonica di sillaba chiusa generalmente è pronunciata schietta, ma risulta anche palatilizzata con una certa frequenza, talvolta anche fortemente. La stessa vocale tonica in sillaba aperta in genere viene pronunciata come una schietta, ma di rado anche leggermente palatilizzata. La a tronca degli infiniti generalmente suona immutata, ma non mancano esempi di a palatilizzata. La vocale finale dei femminili è generalmente percepita come a. Ma non mancano esempi in cui la vocale si dilegua. L’articolo singolare femminile è reso generalmente con la, ma non mancano esempi, anche se pressoché isolati, della forma con a. L’articolo plurale maschile in genere è ottenuto con i, ma si contano pure pochi esempi con li.

L’ultima fonte, l’agricoltore, quest’uomo davvero unico che ha una conoscenza ammirevole della sua lingua e che disdegna la terminologia e l’accentuazione degli ultimi tempi, preoccupato quasi di evocare solo ciò che vi è di veramente antico, manifesta egli pure senza volerlo (e forse non lo crederebbe) le sue sintomatiche incertezze. Si corregge egli pure, ma a differenza degli altri possiede un uso costantemente schietto della a tonica ed atona in qualsiasi posizione. Non fa sentire la a delle finali se non in qualche esempio isolato. L’articolo singolare femminile oscilla tra la forma con a e la forma con la, con un leggiero vantaggio per la seconda.

Ogni fonte dunque ha una propria storia linguistica, ha delle proprie contraddizioni e riflette lo stato di disagio in cui parlano una lingua che pure sanno di conoscere (e a ragione) in maniera perfetta.

Se consideriamo ora nell’insieme alcuni particolari fenomeni nelle tre fonti principali, ci accorgiamo che la parlata presenta dei piani diversi distinti non solo a seconda delle età o delle generazioni (come quando mettiamo il ragazzo sedicenne di fronte all’uomo fatto di 53 anni), ma anche a seconda delle categorie professionali.

Vi è la lingua del bracciante, che per quanto possa vivere confinato nel territorio del suo comune, pure corre da una parte all’altra, da un padrone all’altro ed ha dei contatti svariati anche con gente che scende a lavorare da altri centri. Vi è la parlata vivace dell’artigiano che è investito egli pure dalle correnti forestiere, che salgono la scaletta della sua casa assieme alle scarpe da riparare e alla suola da acquistare. Piú conservativo sembrerebbe il piano dell’agricoltore che ha un campo di azione che non varia: un andata e ritorno quotidiano tra la ‘masseriola’ e la casa del paese.

Tre piani linguistici diversi nelle categorie professionali piú importanti, ed un piano linguistico fra i giovani (almeno per quelli del ceto bracciantile).

Ci troviamo cosí in una comunità che presenta quattro gruppi di parlanti diversi. Una distinzione bastevole per farci orientare sulla direzione che la parlata nel suo svolgimento va seguendo e sulla storia dei vari fatti fonetici, morfologici e lessicali. Il suono della a tonica, ad esempio, che in tutte le posizioni è generalmente schietto nella pronunzia dell’agricoltore, si tinge di una certa palatilizzazione nella parlata dell’artigiano, si palatilizza piú frequentemente con il bracciante e si palatilizza fortemente con il sedicenne, direbbe a chiare note che certi turbamenti vocalici (e oltre all’a si pensi pure alla serie delle altre vocali turbate che potrebbero indurci a fantasticare su non si sa quali precedenti etnici) vanno messi in relazione con dei fatti storici che sono di epoca molto recente, e piú precisamente con le correnti pugliesi che ti premono da tutte le parti.

L’insistenza con cui l’artigiano pronunzia la a finale dei femminili di contro all’abituale schwa dell’agricoltore e la preferenza spiccata che il primo rivela per un articolo femminile singolare in tutto identico alla forma italiana di contro alle oscillazioni del secondo starebbero ad indicarci che anche qui stiamo di fronte a correnti di epoca moderna provenienti non piú dalle parlate del contermine ma dalla stessa lingua letteraria.

Dei fatti notevoli questi che dovrebbero servire a farci intendere con quanta facilità si vada svolgendo, almeno per alcuni fenomeni, il cambio della lingua, e con quanta labilità si affaccino quelli che non sono gli elementi veramente costitutivi di una lingua.

D’altra parte vi sono degli altri fatti, che, ritornando con la stessa costanza in tutti gli strati, potrebbero avviarci a riconoscere quel fondo non trascurabile di un antico patrimonio comune. Si ricordino per tutti l’inserimento della u in funzione di semivocale dopo il suono k, la particella impersonale ce, le locuzioni del tipo i sfér-u llórg ‘lancette dell’orologio’, quel bisogno di concretizzare o di sintetizzare le espressioni un po’ troppo astratte o letterarie, la inclinazione a portare il colloquio ad un livello di confidenza e di bonarietà. Sono questi caratteri che ci richiamano a quel non so che di saldo che è in tutte le manifestazioni di questa gente, anche se poi vadano trovando ognuno per proprio conto delle vie diverse per una maggiore affermazione delle proprie individualità.