PRIMA GLI ITALIANI: UNA POLITICA SOPRA LE RIGHE

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Porti chiusi. Nel capitolo sull’immigrazione, il contratto di governo firmato da Lega e Movimento 5 stelle conteneva due impegni precisi: il “superamento” del trattato di Dublino e il rimpatrio di cinquecentomila “clandestini” (evocato per la prima volta in campagna elettorale da Silvio Berlusconi). Nessuno dei due obiettivi è stato raggiunto.

Il calo degli sbarchi in Italia era cominciato nel luglio 2017 a seguito del lavoro svolto dall’allora ministro Marco Minniti. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha dato un’ulteriore stretta, sintetizzata nello slogan “porti chiusi”, concentrandosi sulle singole navi che portano in Italia i migranti salvati nel Mediterraneo, siano esse della Marina italiana (“Diciotti”) o di Ong indipendenti (“Sea Watch” e “Mare Jonio”).

I diversi episodi hanno in comune alcuni elementi: il trattenimento dei migranti sulle navi o nei porti, prima ancora di averne valutato lo status; le polemiche con i partner europei (soprattutto la Francia), rei di avere lasciato sola l’Italia negli anni precedenti nell’accoglienza dei migranti; la richiesta di far scendere solo donne e bambini, dividendo le famiglie. Sul caso Diciotti, peraltro, la magistratura aveva aperto un’inchiesta per sequestro di persona nei confronti del ministro, poi impedita dal parere negativo del Senato nel marzo 2019.

In questa fase, l’opinione pubblica sembra apprezzare l’effetto deterrenza di questo approccio, convinta anche dagli slogan che negano la condizione drammatica di partenza dall’Africa (“la pacchia è finita”), denunciano il ruolo ambiguo delle Ong (“taxi del mare”) e criticano le modalità dell’accoglienza (“il business dell’immigrazione”). La polemica, dunque, è funzionale al consenso: se l’invasione non c’è (gli sbarchi in Europa sono passati da 1 milione e 500 mila nel 2015 a 150 mila nel 2018), si può comunque evocarla mediaticamente e ricollocarla al centro del dibattito politico.

Nuovi arrivi e rimpatri. Sebbene gli sbarchi siano nettamente diminuiti negli ultimi due anni, l’Italia non ha perseguito quella riforma europea che per lungo tempo aveva invocato. Dopo anni di richieste di aiuto ai partner Ue, al Consiglio europeo del giugno 2018 il governo decide di lasciar cadere la riforma del regolamento di Dublino, schierandosi con quei paesi (Ungheria in testa) che non accettano le quote di ricollocamento e vogliono che i migranti restino nei paesi di primo sbarco.

Nel frattempo, i rimpatri sono stati 6.820 nel 2018, in linea con i 6.514 del 2017. Come era facilmente prevedibile, è difficile fare di più senza l’oscuro lavoro di relazione che sta alla base degli accordi bilaterali. C’è anche chi si è divertito a calcolare che occorrerebbe quasi un secolo per mantenere la promessa dei cinquecentomila rimpatri.

Come cambia l’accoglienza. Ma il provvedimento più significativo del governo Conte è il decreto sicurezza, entrato in vigore dal 5 ottobre 2018 e convertito nella legge 1° dicembre 2018, n. 132. Il cuore del provvedimento riguarda la gestione del sistema di accoglienza (oggi ci sono meno di 120 mila persone nei centri di accoglienza in Italia). L’obiettivo principale è far scendere il numero di migranti accolti: viene abolita la protezione umanitaria, riducendo i casi in cui viene concesso il permesso, e viene ridimensionato il sistema Sprar (protezione per richiedenti asilo e rifugiati) dei comuni, diminuendo anche i tempi di permanenza nei centri. La riduzione della diaria consente soltanto il vitto e l’alloggio sacrificando le politiche di integrazione. Tuttavia, senza rafforzare i rimpatri dei denegati né l’integrazione di chi ha ottenuto il permesso, il risultato è l’inevitabile aumento degli irregolari presenti sul territorio, facile preda di sfruttamento o criminalità. Secondo le stime dell’Ispi, la riforma porterebbe circa 70 mila nuovi irregolari.

Clima ostile. Infine, lo slogan “prima gli italiani” si materializza anche in altri provvedimenti, quali il decreto per “quota 100” e “reddito di cittadinanza” (divenuto la legge n. 26 del 28 marzo 2019), in cui si inseriscono varie clausole volte a limitare il numero dei beneficiari stranieri (il requisito dei dieci anni di residenza in Italia e la richiesta di un supplemento di documentazione alquanto difficile da esibire). Sarà interessante verificare entro giugno l’elenco dei paesi esentati, ma soprattutto il parere della magistratura di fronte ai numerosi ricorsi già presentati.

Il clamore mediatico che ha accompagnato queste vicende non può tuttavia far tralasciare il fatto che non solo non si sono rafforzate le politiche di integrazione degli stranieri presenti in Italia, ma che in questi dodici mesi si è sviluppato un clima di diffidenza e ostilità nei loro confronti (in alcuni casi sfociato in gravi episodi di violenza).

Alle regioni e agli enti locali che si sforzano di programmare e finanziare (modesti) interventi in questo campo, si oppone la logica del “prima gli italiani”. È una eredità destinata a pesare a lungo.

Anche se attualmente circa la metà degli stranieri che vivono in Italia proviene da paesi europei, negli ultimi anni gli arrivi sono stati principalmente africani. La situazione nel Mediterraneo meridionale (clima, demografia ed economia), dunque, ci ammonisce che per governare il fenomeno migratorio occorrerà riflettere sulla situazione demografica italiana, sulla realtà del mercato del lavoro e ripensare su basi nuove le migrazioni economiche. (lavoce)

Andrea Stuppini