LA PRESENZA EBRAICA IN CAPITANATA

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A smentire quanto asserito da alcuni, la presenza ebraica in Capitanata, ancora nel sec. XVII, è attestata da un prezioso documento dell’Archivio di Stato di Foggia [Dogana, s. V, 1680, reg. 2094, f. 13, nel quale si parla dell’esistenza all’epoca in Foggia di un “ fondaco di donna Andriana Ebraica ” , uno dei tanti quivi impiegati nella mercatura della lana, nella quale attività Foggia, capoluogo dell’estesissimo territorio, dagli Abruzzi alle Calabrie, soggetto alla giurisdizione della Regia Dogana della Mena delle Pecore in Puglia, primeggiava. In Capitanata, come nelle altre due Terre pugliesi, mai era esistito un problema ebraico. Nessun intellettuale aveva scritto per denunciare una inesistente gravità di questo preteso problema e invocare la necessità di risolverlo, mentre anzi editti di espulsione e di introduzione nella regione dell’Inquisizione di Spagna rimanevano naturalmente privi d’alcun consenso, come tutte le cose che qui contrastavano la volontà e i sentimenti del popolo. Nelle Puglie l’ebreo non era errante. Lo si trovava ovunque, non pallido e barbuto, senza palandrana nera, come era altrove costume, ed era una delle immagini delle Puglie che il viaggiatore poi più ricordava. Un tempo a Bari, come a Otranto, l’Ebreo era la sentinella avanzata del suo popolo. Attraversando tutta la regione, sostando nelle grandi città come nei piccoli villaggi, ovunque si incontravano i fieri volti di Israele. Non era un popolo senza quiete e senza sosta, non aveva nel sangue alcun istinto di muoversi, di cambiare cielo, di attraversare monti e pianure, di riattraversare il mare. “Quando sarò costretto a esulare, quando mi sarà distaccato dalla mia casa, sarà il sogno che la vita è finita ”, disse un vecchio ebreo della giudecca di Corigliano d’Otranto.  Chiari, di azzurre trasparenze, gli occhi, questa gente passava con lo sguardo assorto, il volto chiuso. Si sarebbe detto che per l’ebreo il mondo terreno era una realtà che non lo riguardava. Dio era, per lui, l’unica realtà. Poteva egli viaggiare, discutere, trafficare, ma tutto ciò intimamente non lo toccava e non lo scuoteva dalla sua visione. L’ebreo dava l’impressione di un uomo costretto a vivere in questa terra suo malgrado. Per conoscere il popolo d’Israele – quello che Heine definì il “terzo stato ” della Nazione –  bisognava internarsi nel silenzio e nella penombra delle giudecche pugliesi, in queste cittadelle dove la tradizione era legge e il sentimento della propria stirpe amore. Quanto dalle città mercantili e tumultuose o i pinnacoli, ci si internava nelle strade delle giudecche veniva incontro l’Oriente. Non si attraversava soltanto una antica piazza del mercato, dove le case avevano lucori d’oro nelle fantasiose decorazioni, non si attraversava soltanto una piazza, ma un mondo: l’Occidente con la sua vita inquieta, le audacie dell’architettura, le incandescenze, il rumore, e al di là una lontananza infinita. Le novità del progresso facevano, sì, il loro ingresso anche nelle giudecche, ma le antiche usanze non ne erano ancora uscite. Era un mondo caotico, del più vero Oriente, dove la strada era la casa di tutti e vi si poteva magiare, dormire, litigare e anche raccogliersi nella meditazione della Torah e del Talmud. Ma era anche un mondo di malinconia, pur se i volti di questa gente, che sembravano moltiplicare all’infinito la stessa immagine, sapevano sorridere e a volte – famosissimo è l’umorismo ebraico – persino ridere anche di se stessi. Se un canto si levava nell’aria era una nenia, che sapeva del lamento verdiano per la patria perduta. Niente era più malinconico di un giorno di festa – il Sabato – in una giudecca. La vita si fermava, i traffici si interrompevano, le inquietudini della vita quotidiana che non conoscono stanchezza, avevano la loro ora di pace. Israele si dimenticava di vivere su questa terra. Lasciava agli altri il problema di far passare il tempo. La giornata pareva coagularsi in lentezze mai esasperanti. Uomini dal volto grave passeggiavano lenti, assorti, a piccoli gruppi, da una piazza all’altra e si incanalavano in stradette medioevali dove il sole mai batteva e galleggiavano nell’aria gli odori d’Oriente. Le case si svuotavano; sulle soglie delle case sedevano le donne, le sole che non fossero erranti nel dedalo della giudecca. Uomini venerandi erano chini su grossi libri polverosi; occhi stanchi scorrevano le pagine sacre della Bibbia. Anche i fanciulli sembravano carichi d’anni, con le tonde kippoth in testa. Facevano malinconia: la vita era qualcosa di più grande di loro, li opprimeva. Grandi e piccole mani stentavano a reggere un vecchio Talmud, mentre gli occhi si affaticavano su pagine consunte. Il silenzio era pesante per la tragedia  che costituiva la storia di questo popolo. Pareva che essa curvasse le spalle d’ognuno, Ma non v’era un sordo rancore contro gli altri. Era il rimpianto di Eretz Yisrael. Ma, quando le schiene si drizzavano, era ben altro sogno: l’auspicato risorto Mrdinat Yisrael. Gente senza patria, se non interiore, amava tuttavia la terra che la ospitava ed era pronta per essa a dare la vita, come già fece a Oria e Otranto. Viveva nelle giudecche perché sotto i cieli delle Puglie mai era sorta una città loro, come invece lo era stato per gli Arabi della Luceria Saracenorum, i Greci della Grecìa Salentina, o gli Italo-Abanesi, ma la dimora nella terra di Pul’

era sentita come fatale e non provvisoria. Quando fu costretta ad abbandonarla, volle conservare a Corfù, a Salonicco e altrove alle proprie comunità il nome della regione e delle amate città pugliesi.  per un  ricordo che  si perpetuasse nei secoli e che solo la Shoah  riuscì con esse a estinguere. Pulsava ancora nel suo sangue – eredità che ogni generazione si trasmetteva – una ansietà dei cieli pugliesi spezzatasi contro l’inesorabile che non poteva essere vinto. In ogni angolo della terra pugliese gli Ebrei sentirono che la loro vita vi si radicava e la loro anima respirava in un’atmosfera di Patria.  Nessuno qui li costrinse nei confini di un ghetto (persino il termine vi era ignorato) e al rancore che era loro inflitto da questa prigionia. Essi usavano la lingua di tutti noi. La riconoscevano addirittura come propria. Molti ebrei non conoscevano altro che i dialetti pugliesi. Le famose scuole ebraiche pugliesi insegnavano la lingua del nostro Paese, dove i loro fanciulli crescevano alla vita. Imparare il latino, dapprima, e l’italiano, poi, non significava per essi atto di abdicazione e offesa alla loro stirpe. La lingua era un ponte gettato tra gli uomini ed essi volevano uscire dal loro isolamento e congiungersi con gli altri.  Solo la religione doveva distinguerli. Precorsero i tempi: si sentivano “fratelli maggiori ” .  La lingua ebraica delle giudecche non era un’isola che isolava e difendeva l’ebreo. La scrivevano in minute calligrafie, in segni per il volgo indecifrabili, ma ciò non impediva che la quasi totalità dei dotti pugliesi la conoscesse, al pari del latino e del greco. La si studiava – come ancora oggi – dai Cristini nei loro Seminari. Gli ebrei stampavano in ebraico le insegne dei loro negozi, lo usavano nei loro libri, ma spesso non mancavano di affiancarci la versione in italiano.  V’è tutta una letteratura ebraica che ha la radice nelle giudecche pugliesi. La particolarità ebraica non si arrese soltanto davanti alla tavola. L’ebreo ignorava infatti la complicata cucina pugliese e si tramandava infatti la tradizione di una cucina propria. Ma questa tradizione non era un segreto, tanto è vero che molte pietanze ebraiche finirono col divenir patrimonio della cucina pugliese.


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