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LA LAGUNA DI VARANO, CENNI STORICI

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LA LAGUNA DI VARANO, CENNI STORICI

I documenti del passato parlano tutti di pesca abbondante e rinomata. Nel Dizionario del Regno di Napoli datato 1797 di Giustiniano leggiamo, infatti: “È incredibile la pesca che si fa in questo lago dalle popolazioni del circondario, e specialmente quella di Cagnano, e dalle altre di Carpino e di Ischitella: capitoni, anguille, capomazzi, spigole, tinche, orate, cefali”

Ne “L’Apprezzo del feudo detto di Varano dello Scaramuzzo” del 1750: “la maggiore quantità di pesca consiste in cefali, spinole, mansi, capitoni, anguille… pescato con vari “istrumenti, et artifici di cannizzate, reti e altro”.

Nella “Fisica appula” di M. Manicone: “Il lago Varano è fonte di un abbondante commercio esterno perché ricco di pescagione fra cui anguille maretiche e pantanine, capo mazzi e capitoni, cefali, manzi, urute, spinole, grugnali e tinche”.  Il documento indugia anche sulle dimensioni dei nostri pesci (diversi rotoli), sulle aree più pescose, sul rapporto venti-pesca.

  1. De Monte in Una gemma del Gargano, 1952, scrive: “Già il lago Varano, per le sue acque speciali, ha ospitato sempre abbondanti e squisitissime qualità di pesce. Basti dire che sinanche i re Carlo d’Angiò e Ferdinando II, entrambi buon gustai, solevano ogni anno provvedersi, dal lago di anguille e pesce salato, particolarmente di uova di cefali e di tinche. Senza dubbio, la qualità del pescame al presente è più varia e più eccellente: oltre i capitoni, i capo mazzi, le anguille maretiche, i mazzoni, le alici, i grognaletti, le ragnette, le folaghe, i mallardi, eccetera, come in passato, non di rado si pescano pesci completamente marini come triglie, merluzzi, avrute e altre varietà ittiche.”

Anche dai ricordi dei nonni, risulta che in passato il lago è stato generoso, restituendo alle famiglie pescate miracolose. Mia madre ricorda con grande soddisfazione i diversi quintali di anguille pescate in una notte del 1972, alla “scurda” della Madonna delle Grazie – Vo jesse benedetta quedda Sanda!

Ma i miracoli non si compiono tutti i giorni e la pesca in laguna nella società tecnologica, conoscitiva e globalizzata come la nostra non può più affidarsi solo alla sorte. La pesca va ripensata, alla luce dell’ecosistema lago, dei sistemi di pesca, delle tecnologie di cui disponiamo, degli studi e delle sperimentazioni, delle esperienze effettuate in altri luoghi, delle capacità progettuali maturate nel tempo, tenendo in ogni caso presente che va evitata la pesca di rapina e che alcune, poche regole vanno rispettate.

I documenti del passato, però, non offrono dati quantitativi sul pescato, tanto da indurmi a pensare che molto probabilmente l’abbondante pesca del passato sia un mito. In realtà, disponiamo di cifre solo dal 1931 – esclusi gli anni del secondo conflitto- al 1985.  Dal prodotto pescato si evince che gli anni più pescosi risalgono dal decennio 1955-1965. Volendo ricercare i motivi che hanno concorso all’aumento del pescato, si può pensare che in quel periodo furono realizzati i lavori di bonifica della Mazzacurati, che gli attrezzi da pesca non erano ancora molto distruttivi, che la vigilanza era attiva, che non ancora era decollata la mitilicoltura, che i reflui urbani erano più contenuti. Il rapporto in ogni caso non è lineare, ma molto più complesso. È probabile però che i lavori di bonifica, i canali sub lacuali, la colmata delle paludi, l’ampliamento e lo sprofondamento delle foci, abbiano avuto i loro effetti.

Un decennio senza morie: l’ultima risaliva al 1954 e la successiva al 1979. Diverse furono comunque le morie registrate in laguna nel tempo, quasi fossero fisiologico. I documenti del passato ricordano, inoltre, quelle cadute negli anni 1809 (capomazzi e anguille), 1823, 1903, 1910, 1924, 1933, 1941, 1949.

Dai dati del decennio più pescoso, però, non si evince che la condizione dei pescatori fosse agiata.

Il   Convegno sul lago di Varano della cooperativa Vongolari Capojale (1982), d’altro canto, si spiega proprio per la crisi innescata sulla pesca e sulla mitilicoltura, dopo la battuta d’arresto di questa nuova attività dal 1973, anno del colera, la moria di pesce del 1979. Da allora, il lago ha cominciato a soffrire irreversibilmente e molti pescatori hanno fatto le valigie, cominciando a dubitare sulla compatibilità tra pesca e mitilicoltura. Preoccupazione infondata, dicono i biologi, a condizione che si impari a gestire anche questa risorsa, nel giusto quantitativo.

Il lago è cambiato anche sotto il profilo della gestione e se tra Otto e Novecento le amministrazioni si prendevano cura di questa realtà, ad esempio, adoperandosi per la realizzazione delle foci, dragandole, facendo eseguire i lavori di bonifica, il banchinaggio, attendendo all’opera di vigilanza, oggi non se cura quasi più.

È vero altresì che in cambio di dette cure, l’amministrazione imponeva e riscuoteva la gabella sul pesce pescato, sugli spanditoi, su aree del lago date in affitto. Una gabella che da 1000 lire passò a 45.000, come ricorda L. Pepe nel 1934, nell’interessante saggio “Memoria in difesa degli usi civici di pesca nel lago Varano”, e che nel 1948 raggiunse la cifra di due milioni di lire (N. De Monte, “Una gemma del Gargano”).

A partire dagli anni Ottanta, comunque, in seguito alla crisi della pesca e al trasferimento della mitilicoltura in mare, non si ha modo di verificare il pescato in laguna. Chiuse anche le pese di Capojale e di Bagno, dove il gabelliere imponeva la gabella sul pesce pescato, ogni pescatore ha fatto come ha potuto, vendendo il frutto del suo lavoro ai commercianti, oppure in proprio, in paese.

La gabella anche se contestata ha offerto ai pescatori una garanzia che oggi non hanno più, perdendo insieme ad essa potere contrattuale. Di fatto ogni pescatore è costretto a svendere il pescato perché in balia di se stesso. Per alcuni di essi meglio sarebbe riapplicarla.

La fenomenologia del pescatore. Cappotte di pandane e stuale,  coppela ngape d’nverno e paglietta d’estate, maglia di lana di pecora anche nella stagione più calda, pantaloni di fustagne o di velluto, il viso solcato di evidenti e numerose righe. Era questo l’aspetto del pescatore del lago. Per conoscere la sua condizione possiamo effettuare delle inferenze, prendendo a prestito informazione dai documenti dell’archivio comunale, dalle storie di vita, dai vissuti personali. C’è poi l’analisi del prodotto pescato dagli anni 1931-1985 (cfr. La laguna di Varano). Allo scopo torna utile anche il richiamo di qualche detto popolare. Quando un pescatore passeggiando per la coppa incontrava un amico o un compare ch li chiedeva: “Come va?”. Egli rispondeva: “Ce camba”. C’era poi un detto più antico che recita: “Prima de Natale né fridde, né fame/dope Natale, fridde e fame”. Terminato l’ultimo novilunio della stagione autunnale, la più pescosa dell’anno, infatti, bisognava tornare a stringere la cinghia.

Andando indietro nel tempo, in un documento del Cinquecento leggiamo: “La condizione dei pescatori cagnanesi si andava facendo insopportabile sempre più. Su la terra ferma non trovavano di che campare, poiché tutto era in mano del feudatario di Cagnano, e nel feudo non si poteva neppure entrare senza il permesso pagato al principesco padrone. Sicché la pesca che il Duca non contrastava più, era il solo mezzo per guadagnarsi il pane e questa veniva loro contrastata con tanta violenza e tanta crudeltà e ferocia dai feudatari di Vico e di Ischitella. […].”

Nel primo ventennio del Seicento i documenti parlano di pescatori fucilati, di altri arrestati, di reti sequestrate (nel numero di 220), di sandali distrutti (15), insomma di ripetute vessazioni e violenze su questa parte misera della popolazione che si vedeva negati gli usi civici affermati sin dal 1306 dal re Carlo II d’Angiò.

Dai dati del catasto Onciario del 1749, si evince che i pescatori costituivano il 19% della popolazione, producevano il 13% dell’imponibile e avevano una redditività media di once procapite di 41, la più bassa tra i produttori. Dalle pagine del catasto Murattiano, 1808, notiamo che il numero degli addetti alla pesca costituiva il 12% della composizione reddituale, che la redditività media procapite era di sei ducati (ancora la più bassa, sia pure di 1 ducato rispetto agli addetti al settore agrosilvopastorale).

Verso la prima metà dell’ottocento, metà della popolazione viveva sulla pesca, ma le loro condizioni di vita erano misere. Questo perché, secondo gli amministratori, non c’era ancora al foce di Capoiale, né era stato realizzato il Drizzagno a Varano.

Avvicinandoci ai nostri tempi, ricorderemo che la malaria ha decimato i nostri pescatori, fino agli anni del dopoguerra. Essa fu debellata con vari mezzi, ma la miseria ha continuato a regnare. Nei primi settant’anni del Novecento, infatti, le condizioni non mutarono, lo posso affermare con sicurezza, perché ne sono testimone. Da bambina anch’io, come gli altri figli di pescatori e come tutti i ragazzini del popolo, andavo a comprare i generi alimentari di necessità con la “carta”, dato che non le famiglie non disponevano di denaro liquido tutti i giorni. I mesi più pescosi cadevano nella stagione dell’autunno e dopo Natale era la fame. Bisognava perciò fare come la formica, mettere da parte per l’inverno, alimentarsi sempre di mazzoni di piccola taglia o di piccole anguille, insomma di pesce di basso valore commerciale. Pane nbusse e brudette quasi tutti i giorni. Un po’ di lardo nel sugo alla domenica.  Vestiti e scarpe fatti in casa o dal vicino, sarto o calzolaio, si riciclavano, passando dai fratelli più grandi ai più piccoli. La scuola meglio non frequentarla perché non dava pane. Non c’era danaro per i libri. Tra i vicini vigeva il baratto, scambiando pesce con uova o formaggi. La bistecca non si conosceva. Quel che più fa meraviglia è che i comportamenti sopra descritti si registravano ancora negli anni Sessanta, quando il pescato registra i valori più alti. Si può chiamare ricco un pescatore che guadagna grosso modo il corrispettivo di ottocento euro di oggi, nel tempo in cui le famiglie erano numerose?

Neanche negli anni più pescosi, che cadono tra il 1955 al 1965, perciò il tenore di vita cambiò.

Leggendo i documenti del passato si corre il rischio di mitizzarlo, di inciampare in certi luoghi comuni, secondo i quali si stava meglio quando in realtà si stava peggio. Negli anni sessanta e settanta, quando i cagnanesi colonizzarono l’isola, si viveva come quelli del terzo e quarto mondo. Si lavavano i piatti nelle acque del lago. Ci si faceva pungere a sangue dalla anofele. Si dormiva in dieci in un monolocale, non di rado sul pavimento. I minori continuarono ad essere sfruttati, senza potere andare a scuola. Tra Otto e Novecento la classe dei pescatori registrava una scolarità minima e contava anche un buon numero di analfabeti. I genitori preferivano condurre con sé il figlio al lago e avviarlo al mestiere. Solo a partire dagli anni settanta del secolo scorso, diversi figli di pescatori hanno cominciato a completare l’obbligo scolastico, conseguendo la terza media, non di rado da privatista. Anche perché obbligati, al fine di ottenere la licenza di pesca.  Con l’emigrazione, i nostri pescatori hanno cominciato a fare i pendolari: sei mesi a Cagnano e sei mesi in Francia, in Germania, in Svizzera. Alcuni non sono più tornati.

L’allevamento dei mitili sembrò portare qualche miglioramento, ma strappò le ragazzine alla scuola, utilizzandole per innestare le cozze: com’erano svelte le loro piccole mani! La gioia è durata poco. Nel 1973 infatti la mitilicoltura fu interrotta per via del colera e nel 1993, a causa della moria delle cozze e grazie ai finanziamenti europei, i pescatori hanno impiantato la mitilicoltura in mare.

Al contempo il numero degli addetti alla pesca ha registrato un forte calo. I dati ufficiali in nostro possesso parlano di poche unità di addetti alla pesca nelle acque del Varano. Vero è invece che chi esercita al pesca e la mitilicoltura in mare, appena fiuta odore di pesce tende le reti e altre trappole nel Varano.  Di fatto accade perciò che i 120 pescatori di mare – che si sono dotati di pescherecci – sono anche pescatori di lago, vivendo una vita più tranquilla e agiata. Va aggiunto che la redditività dei pescatori non è mai stata trasparente, essendo connessa a diverse variabili e prestandosi alle evasioni. I dati in nostro possesso perciò non dicono che una parte della verità.

Leonarda Crisetti