DOVE VA L’OCCUPAZIONE

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Dove va l’occupazione? Per capirci qualcosa è indispensabile collocare i dati strettamente congiunturali – le variazioni intervenute nell’ultimo mese – in un contesto temporalmente più esteso, approfittando anche del fatto che disponiamo di una serie relativamente lunga (dal 2004) di statistiche confrontabili.

Ciò che se ne ricava può essere così sintetizzato.

Secondo Istat (dati destagionalizzati della Rilevazione sulle forze di lavoro) il periodo di ripresa dell’occupazione totale avviato nel 2014 si è bloccato a maggio di quest’anno (grafico 1), quando ha raggiunto il livello massimo (23,25 milioni). Pausa di assestamento – come ce ne sono state anche nel quadriennio precedente – o inversione di tendenza? I dati macroeconomici che stanno affluendo (Pil, export, produzione industriale) fanno temere la seconda ipotesi: ai prossimi mesi il compito di verificarla o smentirla.

L’arresto della crescita occupazionale riflette la stabilizzazione del livello dell’occupazione dipendente e il riaffacciarsi del trend di lungo periodo (iniziato prima del 2004) di erosione del lavoro indipendente: per alcuni mesi, a inizio 2018, il declino risultava interrotto ma la controtendenza si è protratta per un solo trimestre. All’interno dell’occupazione dipendente, quella a termine – che fino a settembre era cresciuta continuamente controbilanciando il parallelo declino dell’occupazione permanente – a ottobre ha evidenziato una leggera flessione mentre, viceversa, quella permanente un piccolo recupero.

L’andamento delle trasformazioni. Su quest’ultimo segnale è opportuno chiedersi: poiché si tratta di una semplice variazione congiunturalissima (ottobre su settembre) vale la pena soffermarsi? No, se non fosse per la concordanza che ne emerge con i dati amministrativi i quali attestano un andamento tendenziale leggermente positivo delle posizioni a tempo indeterminato, andamento che – su base annua – appare in grado di recuperare il risultato negativo del consuntivo 2017.

I due grafici – di straordinaria somiglianza nonostante la diversità di fonte, ambito territoriale di riferimento e anche perimetro settoriale (i dati delle comunicazioni obbligatorie includono agricoltura e pubblica amministrazione) – raccontano una storia abbastanza netta e chiaramente decifrabile: i rapporti di lavoro a tempo indeterminato (che valgono sempre due terzi dell’occupazione totale) sono fortemente aumentati nel 2015 realizzando un evidentissimo “scalino”, effetto della decontribuzione prevista dalla legge di stabilità n. 190/2014. Il formidabile “scalino” positivo, ben distinguibile a occhio nudo nel trend normalmente ansimante dell’occupazione permanente, ha anticipato/accelerato/esaurito tutta la ripresa occupazionale successiva al 2014. Dopo lo “scalino”, infatti, si è assistito – per l’occupazione stabile – a dinamiche di assestamento: nessun tracollo – come invece temeva (auspicava) chi, per ragioni esogene, bollava la decontribuzione come bolla – e nessun ulteriore avanzamento, perché le dinamiche del Pil sono (state) evidentemente incompatibili con ulteriori scalini. Del resto, non era immaginabile che l’elasticità occupazione/Pil implicita nei dati 2015 fosse “normale” e quindi ripetibile. Si trattava in effetti di un cigno nero, che tale doveva rimanere.

Se poi vogliamo cercare, nel trend più recente, le ragioni del (modesto) recupero delle posizioni di lavoro a tempo indeterminato, dai dati disponibili risulta imputabile al buon andamento delle trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato. Andamento che ha riguardato le trasformazioni che hanno interessato i giovani – beneficiarie delle agevolazioni previste fino ai 34 anni dalla legge di bilancio 2018 (legge 205/2017) – ma anche le classi di età over 30.

Il “boom” delle trasformazioni ha quindi in parte la sua radice negli incentivi, ma in parte ancor più consistente affonda le sue determinanti nel boom di rapporti a tempo determinato osservati nel 2017, per il principio applicabile anche ai rapporti di lavoro “più semini, più raccogli”.

Il “decreto dignità”, ovviamente, è del tutto estraneo a questi andamenti: per valutarne l’impatto, con un minimo di attendibilità, occorre attendere quantomeno i dati amministrativi relativi ai mesi di novembre e dicembre.

Bruno Anastasia (la voce)(foto UIL)