DECRETO FLUSSI, UN ATTO DI NAVIGAZIONE A VISTA

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Aprile porta il decreto flussi 2019. Nei giorni scorsi è stato emanato il cosiddetto “decreto flussi” 2019, ossia la norma che programma gli ingressi in Italia di lavoratori “extracomunitari” per l’anno in corso. In teoria, dovrebbe essere il cardine della politica dell’immigrazione, il provvedimento con il quale il governo è chiamato a realizzare una sintesi tra le diverse istanze nella decisione di quanti e quali lavoratori stranieri lasciar entrare in Italia: esigenze dei settori produttivi, accordi di cooperazione con paesi terzi, attese degli oriundi italiani nel mondo, politiche di attrazione di studenti internazionali e altre ancora.

Anzitutto, il decreto esce ad aprile, quando un terzo dell’anno è già passato e l’estate è alle porte. Mette in moto una macchina che avrà bisogno di altro tempo per produrre risultati operativi, perché le quote vanno poi ripartite a livello locale. Non è una novità, ma una conferma di una programmazione tardiva e farraginosa, che rischia di non rispondere in modo tempestivo al suo principale obiettivo: fornire al sistema economico la manodopera di cui ha bisogno. La maggior parte dei lavoratori (18 mila su 30.850) sono infatti destinati ad attività stagionali nei settori agricolo e turistico-alberghiero, che proprio in estate concentrano i maggiori picchi di attività.

Il secondo rilievo, candidamente ammesso dallo stesso decreto governativo, riguarda l’assenza della programmazione triennale degli ingressi prevista dalla norma, l’ormai storica legge Turco-Napolitano del 1998. Il nostro paese continua a navigare a vista nella definizione delle proprie politiche dell’immigrazione. Il problema anche in questo caso non è nuovo e non riguarda soltanto il governo attuale, ma in tempi di sovranismo sarebbe lecito attendersi una lucida e lungimirante strategia di raccordo tra gli interessi nazionali e il mercato del lavoro internazionale. Niente di tutto questo si profila all’orizzonte. Il governo, alla sua prima prova su questa materia, probabilmente ha assunto il lavoro dei funzionari del Viminale in continuità con il passato, senza porsi il problema di riformare un meccanismo legislativo predisposto ormai un ventennio fa o quanto meno di verificare se risponde alle esigenze attuali del nostro paese e della sua economia, famiglie comprese.

Quello che c’è e quello che manca. La lettura del decreto è comunque istruttiva per chi intenda andare al di là degli slogan per comprendere qualcosa di più della varietà e complessità delle figure normalmente accomunate sotto l’etichetta-ombrello dell’immigrazione, nonché della rete di accordi, norme pregresse, interessi economici e politici che concorrono a definire le politiche in materia. Nel testo si parla infatti di cittadini stranieri che abbiano completato nel loro paese programmi di formazione finanziati dallo stato italiano (500 ingressi autorizzati); di lavoratori di origine italiana provenienti da determinate nazioni dell’America Latina (100 ingressi); di investitori, liberi professionisti, artisti di chiara fama, proponenti di “start-up innovative” (2.400).

È inoltre prevista la conversione in permessi di soggiorno per lavoro dipendente di ex-lavoratori stagionali (4.750), di ex-studenti o tirocinanti (3.500), di cittadini extracomunitari provenienti da altri paesi dell’Ue (800). Altre conversioni di permessi riguarderanno il lavoro autonomo (800 in tutto).

In sintesi, il mito di un paese autosufficiente o talmente carico di disoccupati da non aver bisogno di importare manodopera dall’estero è contraddetto dal governo stesso. La pretesa chiusura dei porti è in contrasto con l’apertura delle porte per varie categorie di immigrati, anche se venire legalmente in Italia continua a essere una lotteria per un numero ristrettissimo di fortunati.

Nello stesso tempo, risalta la mancanza di una strategia di ampio respiro, capace di configurare una rete di cooperazione con i paesi con cui abbiamo interessi in comune, compresa la riammissione degli immigrati espulsi. Un volume più adeguato di ingressi autorizzati rappresenterebbe una vera alternativa al canale dell’asilo per i cosiddetti migranti economici, che non sono criminali, ma aspiranti lavoratori.

Manca altresì una lettura più comprensiva delle esigenze di manodopera del nostro paese, che non riguardino solo il lavoro stagionale e poco altro. Investono, per esempio, i fabbisogni delle famiglie italiane in termini di servizi assistenziali e domestici. In quel campo, la strada scelta è invece la tolleranza generalizzata del sommerso. Così, mentre Germania e Giappone hanno deciso di riaprire le porte a un’immigrazione per lavoro ordinata, noi continuiamo a oscillare tra chiusure gridate, scarsi controlli e aperture interstiziali di corto respiro. (lavoce)

Maurizio Ambrosini